È un George W. Bush che «non ha più molto tempo» per afferrare la pace in Medio Oriente, sottolineano gli analisti, quello che è sbarcato oggi all'aeroporto Ben Gurion per la prima visita in Israele e Palestina da quando è alla Casa Bianca, prima tappa di un tour di nove giorni in sei Paesi dell'area. Un viaggio certo ambizioso e che mira a far compiere i primi decisivi passi verso la stabilità dopo i buoni propositi celebrati cinque settimane fa ad Annapolis, quando israeliani e palestinesi hanno concordato l'avvio di un negoziato per porre fine al conflitto. Ma anche un viaggio che nasconde tante incognite.
È un George W. Bush che «non ha più molto tempo» per afferrare la pace in Medio Oriente, sottolineano gli analisti, quello che è sbarcato oggi all’aeroporto Ben Gurion per la prima visita in Israele e Palestina da quando è alla Casa Bianca, prima tappa di un tour di nove giorni in sei Paesi dell’area.
Un viaggio certo ambizioso e che mira a far compiere i primi decisivi passi verso la stabilità dopo i buoni propositi celebrati cinque settimane fa ad Annapolis, quando israeliani e palestinesi hanno concordato l’avvio di un negoziato per porre fine al conflitto. Ma anche un viaggio che nasconde tante incognite, dal nodo degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est a quello della sicurezza, dalla questione dei prigionieri all’isolamento della Striscia di Gaza (tuttora sotto il controllo di Hamas) alla nascita di uno Stato palestinese.
La visita di Bush, che già oggi si intratterrà con Olmert mentre domani sarà la volta di un colloquio a Ramallah con Abu Mazen, è stata preceduta ieri da un incontro tra lo stesso premier israeliano e il leader palestinese, che hanno «autorizzato» i rispettivi gruppi negoziali a discutere delle principali questioni. Il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni da una parte e l’ex premier palestinese Abu Ala dall’altra sono stati così formalmente incaricati di trattare, ad esempio, i confini del futuro Stato di Palestina, lo status definitivo di Gerusalemme, la questione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
La spinta alle trattative dovrebbe arrivare proprio dall’impegno personale di Bush, che punta allo storico traguardo di un accordo di pace «entro il 2008», prima quindi di cedere il passo al suo successore alla Casa Bianca. «Occorre avere lungimiranza – ha sottolineato lo stesso presidente Usa poco prima del suo arrivo in Israele – in modo da arrivare alla creazione di uno Stato palestinese una volta rispettati gli obblighi della road map». L’obiettivo dei due Stati, in grado di coesistere pacificamente, è in cima all’agenda di Bush, che non si nasconde la necessità di «lavorare con i nostri amici ed alleati arabi su questo tema».
Il problema vero, però, è che secondo gli analisti (oltre alla questione della sicurezza nell’area, tutt’altro che risolto) né Olmert né Abu Mazen godono del sostegno interno necessario per risolvere le tante e complesse questioni in gioco. La destra nazionalista israeliana, ad esempio, continua a mostrarsi ostile al coinvolgimento di una Casa Bianca che punta, ad esempio, allo smantellamento di tutti gli insediamenti israeliani (previsto nella road map), non solo quindi su quelli in Cisgiordania ma anche quelli in costruzione a Gerusalemme Est, come richiesto dai palestinesi. Olmert è più che possibilista, ma la destra non vuole cedere. Abu Mazen, da parte sua, oltre a godere ormai di una popolarità ridotta, deve vedersela con l’intransigenza di Hamas che ha bollato come una «pagliacciata» l’arrivo di Bush e accusato il leader palestinese (che con Hamas non tratta) di essersi piegato ai «diktat israelo-americani».
A rendere incerto il cammino della pace è poi il discorso della «lotta al terrorismo», punto sul quale Israele vuole insistere anche dopo l’eventuale creazione di uno Stato palestinese per non rinunciare alla propria sicurezza, mentre i palestinesi chiedono fin da ora lo stop alle incursioni militari a Gaza e in Cisgiordania e la fine della costruzione del muro difensivo. La scarcerazione degli undicimila prigionieri attualmente in prigione in Israele potrebbe a questo proposito servire da segnale di distensione.
«Non possiamo imporre la pace, possiamo solo agevolarla – è la posizione di Bush, che di certo proverà a trarre il massimo da questa missione dopo una presidenza, la sua, tutta incentrata sulla guerra – .È una strada difficile che comporta dure scelte su complessi problemi, ma sono ottimista sulle possibilità di successo». Appena sbarcato stamani a Tel Aviv, accolto da Olmert e Shimon Pers, ha ribadito di essere convinto dell’esistenza di una «nuova opportunità di pace in Terrasanta». L’auspicio degli osservatori è che, pur tra tanti ostacoli, questa volta l’inquilino della Casa Bianca abbia visto giusto.
La Casa Bianca non ha diffuso il programma dettagliato del soggiorno presidenziale in Terra Santa, ma giorni fa il consigliere per la sicurezza nazionale, Stephen Hadley, ha dichiarato che durante il viaggio il presidente non incontrerà solo leader politici e che i dettagli della sua agenda verranno resi noti passo passo. Non è neppure escluso che un credente come Bush voglia visitare, magari in forma privata, un santuario cristiano. Analogamente a quanto fece il segretario di Stato Condoleezza Rice, il 17 ottobre scorso, recandosi a Betlemme.