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Con Stanislaw Dziwisz sui passi di Karol

Terrasanta.net
7 gennaio 2008
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Con Stanislaw Dziwisz sui passi di Karol
Il cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia.

«Don Stanislao», come tutti  l'hanno sempre chiamato, per lunghi anni è stato una presenza discreta accanto a Giovanni Paolo II nei suoi innumerevoli viaggi in giro per il mondo come nelle mille incombenze quotidiane del governo della Chiesa. Scomparso il grande Papa polacco, Benedetto XVI ha voluto che proprio «don Stanislao» divenisse arcivescovo di Cracovia, la città di Giovanni Paolo II, il luogo che più ne custodisce la memoria e la spiritualità. Il card. Dziwisz (68 anni) ci ha rilasciato un'intervista pubblicata sul numero di novembre-dicembre 2007 del bimestrale Terrasanta. Ve ne riproponiamo alcuni stralci.


«Don Stanislao», come tutti  l’hanno sempre chiamato, per lunghi anni è stato una presenza discreta accanto a Giovanni Paolo II nei suoi innumerevoli viaggi in giro per il mondo come nelle mille incombenze quotidiane del governo della Chiesa. Scomparso il grande Papa polacco, Benedetto XVI ha voluto che proprio «don Stanislao» divenisse arcivescovo di Cracovia, la città di Giovanni Paolo II, il luogo che più ne custodisce la memoria e la spiritualità. Il card. Dziwisz (68 anni) ci ha rilasciato un’intervista pubblicata sul numero di novembre-dicembre 2007 del bimestrale Terrasanta. Ve ne riproponiamo alcuni stralci.

Eminenza, tutti abbiamo un posto nel quale vorremmo ritornare. Quale santuario in Terra Santa ha lasciato il segno più profondo nel suo animo?
In Terra Santa tutti i posti sono speciali. Torno con gioia nei luoghi cari a tutti i cristiani e che furono cari a Papa Wojtyla. Le orme di Giovanni Paolo II ci conducono direttamente a Cristo, perciò ben volentieri seguiamo le sue orme non soltanto in Terra Santa, ma anche a Roma e nella nostra terra polacca. Per me è stato molto toccante celebrare la Santa Messa nella Grotta della Natività, dove mi sono reso conto in maniera molto viva del grande miracolo della transustanziazione. Il Cristo, nelle nostre mani, nasce di nuovo. È un incredibile mistero e un indimenticabile esperienza celebrare l’Eucaristia sul piccolo altare della grotta di Betlemme. La stessa emozione mi ha accompagnato nella basilica del Calvario e della tomba del Signore. Ciò che lì è avvenuto si attualizza nella Santa Messa.
In Terra Santa si capisce meglio la Sacra Scrittura e si vive diversamente la liturgia. Si sperimenta una più viva presenza del Signore Gesù Cristo nei segni, nelle parole, nell’Eucaristia. È un’esperienza che ho vissuto in modo particolare a Nazaret, dove «il Verbo si è fatto carne», dove il Figlio di Dio ha preso la nostra natura umana. In questi luoghi per i credenti tutto riceve un senso più profondo, non solo in chiave storica ma esistenziale. In Terra Santa siamo fortificati nella realizzazione degli impegni indicati dalla nostra vocazione, che è l’accettazione della volontà di Dio nella nostra vita.

Ricordiamo il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa nel 2000, l’anno del grande giubileo. Lei in precedenza era già stato pellegrino in Terra Santa?
Ho visitato la Terra Santa per la prima volta nella primavera del 1978. Il nostro gruppo è stato guidato dal gesuita padre Robert North, professore di archeologia e geografia biblica presso l’Istituto biblico in Roma (padre North, che diresse negli anni Cinquanta del secolo scorso anche il Biblico di Gerusalemme, è deceduto il 2 giugno di quest’anno – ndr). Quello fu un pellegrinaggio molto particolare, perché metteva insieme gli aspetti spirituali a quelli accademici in campo archeologico e storico. Il secondo viaggio è stato quello giubilare con Giovanni Paolo II.

Fin dall’inizio del suo pontificato Papa Wojtyla a desiderava ardentemente recarsi in pellegrinaggio nella Terra della rivelazione. Questo desiderio si è potuto realizzare solo nell’anno 2000.
È vero. Giovanni Paolo II fin dall’inizio del suo pontificato portava nel cuore il grande desiderio del pellegrinaggio nei Luoghi Santi. Ripeteva: «Desidero visitare la Terra Santa, la terra su cui Gesù Cristo ha lasciato le sue orme. Sento il bisogno del cuore sia come successore di Pietro sia come pastore della Chiesa universale, di recarmi in pellegrinaggio in Terra Santa per adorare Cristo nella terra che ha visto la sua nascita come uomo».
Le ragioni politiche, in modo particolare le tensioni e i conflitti militari, non hanno permesso che il pellegrinaggio potesse avvenire prima. Fino al 1993 tra Israele e la Santa Sede non c’erano relazioni diplomatiche. Il Santo Padre premeva molto perché si arrivasse a regolare i rapporti vicendevoli, ma dall’altra parte sosteneva il progetto dello statuto di Gerusalemme come «città universale» aperta alle tre religioni monoteistiche: ebraica, musulmana e cristiana. Israele non approvava questa soluzione. Anche oggi questa continua ad essere la posizione della Santa Sede, perché tutte le religioni possano avere un libero accesso ai Luoghi Santi della città vecchia di Gerusalemme. Giovanni Paolo II aveva molto rispetto per il popolo eletto. Quando si è recato alla sinagoga di Roma, nel colloquio personale con il gran rabbino Toaff ha detto: «Vi siamo grati per aver trasmesso al mondo la verità del Dio unico».
Nel 2000, l’anno del grande giubileo, il Santo Padre ha deciso di compiere il grande pellegrinaggio sulle «orme di Abramo». Desiderava iniziarlo da Ur dei Caldei, ma le autorità irachene e il presidente Saddam Hussein, si opposero a quel viaggio. Non conosciamo i motivi di questo rifiuto. A nome di Giovanni Paolo II in Iraq si è recò il cardinal Roger Etchegaray. Il Papa celebrò una liturgia nell’aula Paolo VI in Vaticano, attraverso la quale esprimeva in modo simbolico e spirituale il significato del pellegrinaggio nella terra di Abramo.

Che cosa le è rimasto più impresso nella  mente di quel pellegrinaggio giubilare?
L’intensità della preghiera personale di Giovanni Paolo II nei santuari: al Calvario, al Santo Sepolcro, nella Grotta dell’Annunciazione, a Nazaret e a Betlemme. Ricordo la lunga preghiera del Papa al Cenacolo. Gli israeliani della scorta e gli altri servizi di sicurezza non riu scivano a capire questo raccoglimento e la lunga preghiera nel silenzio. Con ammirazione guardavano il Papa che pregava.
Il secondo aspetto riguarda gli incontri. Prima di tutto con i cristiani, ma non solo con loro. A Betlemme, per esempio, il Santo Padre si è incontrato con i musulmani e con l’allora presidente dell’Autonomia palestinese Yasser Arafat, che aveva già avuto occasione d’incontrare più volte in Vaticano. La Santa Sede e il Papa in persona erano impegnati nella questione palestinese, appoggiando la rivendicazione di chi voleva possedere la propria patria e ottenere l’indipendenza nazionale. Il Papa ripeteva: in questa terra non ci sarà pace, finche i palestinesi non avranno il proprio Paese. Ho visto con quanta venerazione e rispetto il presidente Arafat e i suoi collaboratori musulmani trattavano Giovanni Paolo II.
Il terzo ricordo riguarda la vista ad Yad Vashem, dove il Papa prima di tutto ha venerato la memoria di coloro che sono stati uccisi ad Auschwitz e in tanti altri campi di concentramento in Europa preparati dai nazisti non soltanto per lo sterminio dei figli del popolo ebraico, ma anche per i polacchi e gli zingari. In quel luogo voluto per fare memoria dell’Olocausto, il Papa si è incontrato con i sopravvissuti alla «geenna» della guerra. Durante questo incontro si notava la vicendevole comprensione della comune esperienza di dolore: la drammatica storia della nazione polacca si intreccia con le sofferenze del popolo ebraico, che proprio in Polonia ha patito di più negli anni della seconda guerra mondiale. Il primo ministro d’Israele, a conclusione della visita, con commozione ha detto: «Il Papa non poteva dire di più di ciò che ha detto».

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