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A colloquio col rappresentante palestinese in Vaticano

04/01/2008  |  Roma
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A colloquio col rappresentante palestinese in Vaticano
Shawqui Jabriel Armali, nuovo rappresentante dei palestinesi presso la Santa Sede.

«È necessario che il Vaticano abbia un ruolo attivo nel processo di pace: noi lo chiediamo a gran voce, vista anche la seria preoccupazione della Santa Sede per il futuro di Gerusalemme e dei Luoghi Santi, e il Papa mi ha assicurato che farà tutto ciò che è in suo potere per sostenere il processo che alla fine porti alla nascita di uno Stato palestinese». Il nuovo rappresentante dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) presso la Santa Sede, Shawqui Jabriel Armali, parla così del colloquio avuto il 10 dicembre scorso in Vaticano con Benedetto XVI. Nostra intervista.


«È necessario che il Vaticano abbia un ruolo attivo nel processo di pace: noi lo chiediamo a gran voce, vista anche la seria preoccupazione della Santa Sede per il futuro di Gerusalemme e dei Luoghi Santi, e il Papa mi ha assicurato che farà tutto ciò che è in suo potere per sostenere il processo che alla fine porti alla nascita di uno Stato palestinese». Il nuovo rappresentante dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) in Vaticano, Shawqui Jabriel Armali, parla così del colloquio avuto il 10 dicembre scorso con Benedetto XVI.

Lo abbiamo intervistato.

Signor Armali che cosa ha chiesto al Papa?
Naturalmente abbiamo parlato della situazione sul campo, a che punto siamo con i negoziati. Il Vaticano ha sempre avuto un indiscusso interesse per la pace nei Luoghi della Redenzione e ha sempre denunciato le ingiustizie commesse verso il popolo palestinese. Per questo ho chiesto alla Santa Sede di avere un ruolo il più possibile attivo dopo l’incontro di Annapolis del 27 novembre scorso: il Papa era molto impressionato dagli sforzi del presidente Abbas e mi ha assicurato che continuerà a sostenerlo.

Che aiuti concreti si aspetta dalla Santa Sede?
Ci aspettiamo che il Vaticano eserciti tutta la sua moral suasion su Israele e sulla comunità internazionale per porre fine alle vessazioni e all’embargo disumano al quale è sottoposta la popolazione a Gaza. Ci aspettiamo che il Vaticano denunci pubblicamente qualsiasi atto contro i palestinesi e che possa danneggiare l’atmosfera costruttiva che si è stabilita nelle ultime settimane.

Che riscontri ha avuto dai vertici della Segreteria di Stato?
Negli incontri con il cardinale Tarcisio Bertone e con l’arcivescovo Dominique Mamberti (segretario per i rapporti con gli Stati – ndr) ho potuto toccare con mano la loro preoccupazione su molti aspetti del conflitto, e in particolare per certi passi unilaterali intrapresi da Israele, come l’annessione di Gerusalemme nel 1967, che il Vaticano, come il resto della comunità internazionale, non ha mai riconosciuto. La Città santa vede anche l’ampliamento di certe colonie costruite cinque anni fa, ad esempio nel quartiere arabo di Abu Ghnim. In Vaticano sanno che questo costituisce una minaccia al processo di pace e rappresenta una violazione degli impegni assunti con la Road Map: Israele non può condurre i negoziati e contemporaneamente ingrandire gli insediamenti, o far finta che si tratti di una «naturale crescita degli insediamenti».

La Chiesa denuncia da anni la progressiva erosione della presenza cristiana in Terra Santa.
È in effetti un grave problema: fino a 15 anni fa noi cristiani eravamo l’8-10 per cento della popolazione palestinese, oggi siamo meno del 2 per cento, non più di 150mila persone. La causa va cercata nell’occupazione, che preclude ai giovani ogni orizzonte di futuro e li spinge a raggiungere i parenti che da almeno due generazioni sono emigrati all’estero: Europa, America del Sud, Stati Uniti. E una volta che si stabiliscono laggiù, non tornano indietro. Questa è una grande preoccupazione non solo per il Vaticano ma anche per il presidente Abu Mazen: per questo non cessiamo di ripetere che, se si mette fine alle vessazioni e ai soprusi quotidiani contro i palestinesi, saremo in grado di fermare anche questa ondata di emigrazione.

Come pensa che si potrà superare la frattura fra l’Autorità palestinese e Hamas?
Il presidente Abbas è stato molto chiaro: Hamas deve rinunciare all’occupazione delle istituzioni che ha usurpato con il colpo di Stato di giugno e deve chiedere scusa per le morti di militanti di Al Fatah. Siamo pronti ad avere un dialogo con loro e a indire nuove elezioni, e allo stesso tempo a continuare il negoziato con gli israeliani per arrivare a quella coesistenza pacifica che i palestinesi cercano. Ma Hamas deve rispettare la nostra Costituzione, che conferisce al presidente il potere di sciogliere il governo e nominarne un altro. Se gli Stati Uniti, l’Unione Europea e anche il Vaticano sosterranno Abu Mazen, e se le condizioni di vita miglioreranno concretamente, il sostegno ad Hamas verrà meno e prevarranno le forze moderate del Paese. E questo porterà alla fine ad uno Stato palestinese unito e collegato, non a tre o quattro cantoni separati gli uni dagli altri.

Per 22 anni lei è stato delegato dell’Olp a Bruxelles. Ma l’Europa è pressoché assente dalla questione palestinese. Che cosa chiede oggi all’Unione Europea?
I palestinesi hanno sempre sperato che l’Europa potesse bilanciare lo sproporzionato sostegno che gli Stati Uniti hanno sempre accordato ad Israele, ma purtroppo questo non è avvenuto: l’Unione Europea è stato il maggiore donatore del popolo palestinese, soprattutto dopo gli Accordi di Oslo, ed anche oggi è così. Ma quello che vorremmo dall’Europa è un ruolo politico, una presa di posizione che potesse sortire effetti anche su Israele, perché i rapporti fra Israele e Unione sono molto consistenti e Bruxelles potrebbe fare moltissimo per far cambiare atteggiamento ad Israele. Ma purtroppo la regola dell’unanimità (anziché, come dovrebbe essere, della maggioranza qualificata), impedisce questa unitarietà, a maggior ragione dopo l’allargamento all’Europa dei 27. Malgrado le difficoltà, continuiamo ad avere dei rapporti eccellenti con l’Unione e auspichiamo un suo coinvolgimento sempre più attivo nel processo di pace.

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