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A Tel Aviv. O altrove

Giampiero Sandionigi
5 dicembre 2007
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A Tel Aviv. O altrove

Questa pellicola israeliana, ambientata in una Tel Aviv grigia, autunnale e anonima, è una melanconica poesia. Più intento a trasmettere emozioni che a narrare vicende compiute, il film apre uno squarcio fugace sulla vita di un manipolo di personaggi, quasi tutte donne, che si avvicendano in scena due o tre alla volta. Le loro sono vite minori, disorientate, spiaggiate come meduse respinte dal mare. Meduse ha vinto il premio per la miglior opera prima al Festival di Cannes 2007. Un indizio in più per chi al cinema chiede non soltanto un paio d'ore di spensierato svago.


La pellicola israeliana Meduse – ambientata in una Tel Aviv grigia, autunnale e anonima – è una melanconica poesia. Più intento a trasmettere emozioni che a narrare vicende compiute, il film apre uno squarcio fugace sulla vita di un manipolo di personaggi, quasi tutte donne, che si avvicendano in scena due o tre alla volta.

Le loro sono vite minori, disorientate, spiaggiate come meduse respinte dal mare. In un modo o nell’altro sono persone ai margini, che vivono qualche forma di disagio: Joy, l’immigrata filippina sballottata dalla sua nuova professione di badante in una realtà che non conosce, mentre ha il cuore a pezzi per il suo piccolo rimasto a casa, troppo lontano da lei (l’interprete è un’attrice non professionista che nella vita svolge davvero la professione che rappresenta nel film); una ruvida anziana ebrea che Joy accudisce con maggior tenerezza di quanto non faccia la figlia, attrice di grandi velleità ma poca sostanza; la coppia di sposini che per un incidente hanno dovuto rinunciare alla luna di miele e s’accontentano di un grande albergo affacciato sul Mediterraneo – incontentabile lei, un po’ spaesato lui -; la giovane fotografa e la goffa cameriera, angariate dal manager di un servizio catering manesco e scontroso.

L’unica donna che sembra padrona di sé e dotata di carisma è una scrittrice di mezza età, scesa nello stesso albergo degli sposini, dove spera che il cuore le detti le parole giuste per dire addio alla vita. Parole che troverà in una poesia non sua, scritta con tutt’altro intento che l’ultimo congedo.

Per un’esistenza che si spegne un’altra rifiorisce grazie alla tenera e misteriosa irruzione di una bimba uscita dal mare dentro una ciambella di salvataggio da cui non si separa mai. Salva lei o salva altri quell’anello di plastica? A cosa allude?

Il mare è, in effetti, l’altro grande protagonista muto di questo film. «In moltissime scene c’è la presenza dell’acqua – ha riconosciuto in un’intervista lo scrittore Etgar Keret, regista di Meduse insieme con la moglie Shira Geffen -. Personalmente credo che il mare rappresenti il nostro inconscio, le nostre paure, le nostre esperienze traumatiche e tante altre cose, probabilmente la vita stessa».

In qualche modo il film prescinde dallo scenario mediorientale, con tutte le sue caratteristiche a noi ben note. In fondo potrebbe essere stato girato in qualunque altro posto, perché il panorama che si propone di esplorare è quello dell’animo umano con quelle caratteristiche di universalità che ci affratellano.

Meduse ha vinto il premio per la miglior opera prima al Festival di Cannes 2007. Un indizio in più per chi al cinema chiede non soltanto un paio d’ore di spensierato svago.

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