Il Medio Oriente non è noto per essere un paladino nel rispetto dei diritti elementari della persona umana. Una categoria è tuttavia spesso dimenticata, quando vengono avanzate nuove rivendicazioni o sollevate proteste contro certe discriminazioni politiche, religiose o sociali: i lavoratori stranieri. Le condizioni di vita di questi lavoratori sono disperate in molti Paesi della regione. Negli Stati del Golfo, la questione torna ogni tanto alla ribalta grazie a qualche nuovo episodio di discriminazione. All’inizio di ottobre, un giornale del Kuwait ha riferito di un datore di lavoro che ha tagliato con le forbici le orecchie al suo domestico indiano «perché non gli ha dato ascolto» eseguendo subito i suoi ordini.
Qui il trattamento dei lavoratori assomiglia molto spesso a una forma di schiavitù moderna che lede la dignità umana di moltissime persone, visto che il numero dei lavoratori stranieri nel Golfo supera i 12 milioni, familiari compresi. La gran parte vive in Arabia Saudita: ben 7 milioni, che rappresentano il 30 per cento della popolazione; negli Emirati arabi la percentuale sale all’80 per cento (oltre due milioni), nel Kuwait è del 63 per cento (circa un milione e mezzo), nel Qatar il 72 per cento (420 mila), nell’Oman e nel Bahrein il 26 per cento (rispettivamente 630 mila e 280 mila). Il vero dramma di questi lavoratori, in particolare quelli provenienti dal Sudest asiatico, è il meccanismo dello sponsor. Ci sono dei mediatori per le aziende che raccolgono i passaporti dei migranti e dichiarano di pagare al singolo lavoratore uno stipendio di almeno 500 dollari al mese. In realtà ne pagano al massimo 100 e intascano il resto. Solo di recente alcuni governi della regione hanno iniziato a fissare delle norme sul lavoro, quali il rispetto di un giorno di riposo settimanale, una pausa pomeridiana obbligatoria nei mesi estivi per chi lavoro nei cantieri edili (quando il sole tocca i 50 gradi) e un massimo di due ore straordinarie da consentire in casi urgenti. Il codice del lavoro del Bahrein prevede addirittura dei giorni di ferie nei casi di matrimonio, funerale o nascita di un bimbo.
Ovviamente, queste norme non vengono quasi mai rispettate. I lavoratori non sanno con chi lamentarsi delle prevaricazioni su bite e molto spesso non conoscono nemmeno i propri diritti. Ovviamente, non possono ribellarsi perché i loro documenti sono nelle mani dei datori di lavoro, mentre le ambasciate dei Paesi interessati esitano a intervenire per non perdere le rimesse dei «nuovi schiavi», stimate in 25 miliardi di dollari l’anno. Senza parlare poi delle condizioni igieniche in cui versano centinaia di migliaia di lavoratori, dato che molte società costringono anche 20-25 operai a vivere stipati nello stesso appartamento.
Non meno dura la condizione dei lavoratori che vivono in Paesi che vantano una lunga tradizione giuridica. In Libano, sono noti i soprusi cui vengono sottoposte le colf (si parla di 86 mila solo dallo Sri Lanka e 30 mila dalle Filippine): orari di lavoro massacranti, paghe minime (100 dollari) e numerosi casi di maltrattamenti. Per fortuna, la Chiesa libanese ha cominciato da qualche anno, accanto a numerose associazioni civili, a sensibilizzare i cristiani su questo tema e a premere per il miglioramento delle condizioni delle donne immigrate. La Caritas locale ha creato dei centri di accoglienza per le lavoratrici che intendono sfuggire alla condizione del lavoro coatto; in questi centri viene fornita un’assistenza medica e legale. C’è poi un numero verde a uso degli immigrati o dei vicini che sospettano abusi.