L'Associazione degli psicologi dell'Iraq (Api) ha pubblicato gli esiti di uno studio sulle condizioni psicologiche dell'infanzia irachena dall'invasione statunitense fino ad oggi. Il portavoce dell'ente in questione, Marwan Abdullah, dice che le uniche idee presenti nelle teste dell'ultimissima generazione in Iraq riguardano proiettili, armi, morte, paura dell'invasore. Al punto che anche nel momento del gioco ragazzi e ragazze fanno ricorso alle armi giocattolo per riprodurre nelle fantasie di gruppo le dinamiche di violenza che osservano nel mondo dei grandi. Qualcuno si camuffa in modo tanto simile ai suoi modelli da rischiare davvero la vita.
È difficile trovare qualcosa di sorprendente in una squadra di ragazzini impegnati in una partita di guardie e ladri. Anche se, tanto le guardie quanto i ladri, sono corredati di appositi fucili e pistole giocattolo. Al massimo si potrebbe discutere sull’opportunità di permettere ai propri figli di intrattenersi con giochi violenti.
Ma nell’Iraq del dopo Saddam, dove la violenza traccia le coordinate della quotidianità, anche un gioco da fanciulli può assumere una valenza nuova, ed essere lo specchio torbido di un profondo disagio. Bisognerà forse attendere che il Paese dei due fiumi ritrovi l’equilibrio e la pace affinché schiere deputate di esperti comincino a valutare i danni anche psicologici inferti dalla guerra specialmente alle fasce più vulnerabili della popolazione.
Intanto «guardie e ladri» sembra essere di gran lunga il gioco di ruolo più diffuso in Iraq. Con la particolarità che i bambini escono di casa per parteciparvi sia di giorno che durante la notte, armati fino ai denti, con riproduzioni più che fedeli delle armi maggiormente usate nei peggiori conflitti, caricate con proiettili ad aria compressa capaci di cavare gli occhi se sparati a bruciapelo, con obiettivi laser o ad infrarossi in grado di sfidare l’oscurità. La guerra non è un gioco da maschi. Bambini d’ambo i sessi e appartenenti a tutti i ceti non degnano di uno sguardo bambole, palloni, radio o macchinine; i negozi si arricchiscono vendendo ai giovani l’illusione di somigliare ai genitori o agli zii impegnati nella realtà del conflitto.
Talvolta i soldati stranieri di stanza in Iraq fanno fatica a distinguere un nemico vero da uno solamente travestito. E succede che sbaglino, come narrano che sia successo nella provincia di Diyala, dove un ragazzo troppo somigliante ad un possibile terrorista è stato crivellato di colpi da un drappello di militari statunitensi. Così i negozianti non trovano di meglio che consigliare ai loro giovani clienti di mostrare con cautela i loro acquisti per non finire nella stessa maniera.
L’Associazione degli psicologi dell’Iraq (Api) dà il nome all’unico studio effettuato sulle condizioni interiori dell’infanzia irachena dall’invasione statunitense fino ad oggi. Il portavoce dell’ente in questione, Marwan Abdullah, dice che le uniche idee presenti nelle teste dell’ultimissima generazione in Iraq riguardano proiettili, armi, morte, paura dell’invasore. Il ministro Abed Falah al-Sudani, da parte sua, ha pensato di ritirare dal commercio le armi giocattolo ritenute più verosimili. Sembra che, dopo aver valutato con estrema attenzione e altrettanto realismo la possibile esecuzione di questa direttiva, il ministro abbia abbandonato il progetto. Forse sarà più facile far sparire le armi finte quando cominceranno a tacere quelle vere.