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Gesù e il rabbino

Daniele Civettini
12 novembre 2007
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Gesù e il rabbino

A chi abbia letto Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, e in particolar modo a chi abbia meditato sul quarto capitolo del suo studio, certamente non può sfuggire la figura del coltissimo rabbino statunitense Jacob Neusner, se non altro per l'importanza che Papa Ratzinger ha attribuito all'acuta analisi contenuta nel suo libro Un rabbino parla con Gesù. Si capisce che l'opera costituisce un punto di riferimento per il dialogo tra ebrei e cristiani. O meglio, tra quanti, ebrei e cristiani, vanno cercando i lineamenti dell'autentico volto di Dio.


A chi abbia letto Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, e in particolar modo a chi abbia meditato sul quarto capitolo del suo studio, certamente non può sfuggire la figura del coltissimo rabbino statunitense Jacob Neusner, se non altro per l’importanza che Papa Ratzinger ha attribuito all’acuta analisi contenuta nel suo libro Un rabbino parla con Gesù, del 1993, tradotto nel 2007 in italiano per i tipi della San Paolo. Si capisce che l’opera è e resterà a lungo un punto di riferimento per il dialogo tra ebrei e cristiani. O meglio, tra quanti, ebrei e cristiani, vanno cercando i lineamenti dell’autentico volto di Dio, a partire, ed è questa l’originalità e la forza dell’impostazione data da Neusner e accolta da Ratzinger, dalle reciproche differenze.

Chiedeva Gesù ai suoi: «E voi, chi dite che io sia?». Su cosa certamente Cristo non sia, Neusner concorda col Papa: non un rabbino brillante e liberale, non una figura velata da una supposta insuperabile cesura tra fede e storia, non un predicatore di valori universali avulso dalla tradizione, cioè estraneo dal rapporto che Dio aveva già instaurato con l’uomo attraverso la testimonianza delle Scritture accolte tanto dai cristiani quanto dagli ebrei.

Neusner sceglie e immagina di interloquire con il Cristo del Vangelo di Matteo (il più «ebraico» dei Vangeli, come lo definisce): discute con lui dopo il Discorso della Montagna, perché Egli è venuto a compiere la Torah, laddove la Torah non ha bisogno di un altro Sinai e di un secondo Mosè; discute con lui quando guarisce di Sabato e del Sabato si proclama Signore, perché riposare di sabato significa imitare la santità di Dio; discute ancora perché non compie le abluzioni rituali prima di mangiare, laddove lavarsi indica che ogni mensa può essere sacra, per un regno di sacerdoti.

Neusner non segue Gesù quando questi invita i discepoli a lasciare tutto per lui, perché significherebbe seguire un uomo al di fuori della famiglia, e dunque fuori dalla Legge. Non si fa discepolo di Gesù, infine, perché Gesù si rivolge agli «io» delle singole coscienze e non al «voi» dell’Eterno Israele. È rapito, come tutti gli astanti, dalle sue capacità esegetiche e dall’autorevolezza del suo insegnamento, così simile, tante volte, a quello della migliore tradizione talmudica e midrashica (che, nell’opera, è uno scrigno aperto in più occasioni per il lettore).

Tuttavia, come nota il rabbino, Gesù, a partire da quel giorno di duemila anni fa su una collina della Galilea, ha posto autenticamente qualcosa di nuovo e discriminante: se stesso. Neusner e Ratzinger hanno ascoltato, con attenzione, le stesse parole, e hanno tratto conclusioni diverse, perché in fondo non esiste una via di mezzo tra quelli per cui Cristo è un uomo che ha inteso prendere il posto della Torah e quanti riconoscono in Cristo la Torah che ha preso dimora tra gli uomini. Resta però la possibilità di un confronto virilmente sostenuto, che accresca intellettualmente e spiritualmente le controparti. E che generi perciò amicizia e gratitudine, come è accaduto per il rabbino Neusner e per il pontefice Benedetto XVI.

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