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Con l’acqua alla gola

Serena Marcenò
14 novembre 2007
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Con l’acqua alla gola
Una pozza d'acqua inquinata nei Territori palestinesi.

Fra i nodi più delicati del conflitto tra Israele e palestinesi vi è la gestione delle risorse idriche. Se non verrà rivista la situazione attuale, il futuro Stato palestinese nascerà con forti squilibri idrici.


L’acqua in Medio Oriente vale oro. E sul controllo delle risorse (e delle riserve) idriche si giocano molti dei destini della regione.

Il bacino del Giordano presenta, nel suo insieme, tutti gli aspetti problematici relativi alla gestione delle risorse idriche, quasi un compendio delle maggiori difficoltà che una regione può raffigurare dal punto di vista idrogeologico e geopolitico. Dal punto di vista fisico il bacino racchiude, per la maggior parte, aree aride e semiaride con scarsi livelli di precipitazione. Dal punto di vista economico e sociale, anche se su scala diversa, i Paesi dell’area – Israele, Palestina, Siria, Giordania e Libano – sono caratterizzati da economie che presentano numerosi fenomeni tipici del mancato sviluppo, alti tassi di incremento demografico e livelli di consumi idrici pro-capite ben al di sotto degli standard internazionali, sia per quantità sia per qualità.

Dal punto di vista politico, infine, l’area è caratterizzata da una conflittualità di lunga durata tra gli Stati rivieraschi – tale da aver fatto coniare la definizione di «idroconflitti» – e da contrapposizioni tradizionali per il controllo del territorio dal punto di vista strategico.

In questo contesto le prospettive di una gestione integrata delle risorse idriche presentano limiti al momento invalicabili e le soluzioni, almeno fino ad ora, hanno riguardato scelte e strategie interne ai singoli Stati, spesso perpetrate a danno dei Paesi confinanti e a dispetto del diritto internazionale.

Tuttavia non è possibile spiegare le guerre arabo-israeliane nei termini esclusivi di «idroconflitti», poiché questo potrebbe dar luogo ad una visione riduttiva della geopolitica dell’area. Inoltre, la guerra dell’acqua, che pur c’è stata e c’è tuttora, non viene combattuta soltanto attraverso il ricorso a fasi belliche, ma anche con il concorso di una serie di strumenti tecnico-scientifici, istituzionali, giuridici, amministrativi e gestionali, e coinvolge anche aspetti demografici, economici e ambientali, giocando la sua battaglia su un piano ben più ampio ed articolato.

L’assunzione del nesso terra-acqua, che comprende al suo interno non solo il conflitto per le risorse idriche, ma anche quello per i confini, la sfida demografica, la questione del controllo economico e dei modelli di sviluppo adottati, e non ultimo lo sforzo diplomatico, probabilmente serve meglio a cogliere la natura delle forze in campo e costituisce la chiave di lettura più appropriata del conflitto arabo israeliano in generale e israelo-palestinese in particolare.

Da un punto di vista strettamente idrologico l’area israelo-palestinese sfrutta due sistemi di risorse: una superficiale, rappresentata dal bacino del fiume Giordano e dai suoi maggiori tributari, l’Hasbani, il Dan ed il Banias (vedi mappa a p. 48), e un sistema di acquiferi sotterranei: l’Acquifero montano, suddiviso a sua volta nei sub-acquiferi Orientale, Nord-Orientale e Occidentale, e l’Acquifero costiero, che si sviluppa lungo la piana di costa mediterranea che va da Rafah, a sud della Striscia di Gaza, fino al Monte Carmelo a nord, in territorio israeliano. A questi due acquiferi principali bisogna aggiungere alcuni sistemi acquiferi minori: la falda della Galilea, suddivisa in Orientale e Occidentale, quella del Carmelo e quella di Araba-Arava.

Il principio guida che ha animato le politiche israeliane sin dalla fondazione dello Stato nel 1948 è stato quello di assicurare, in una zona per la maggior parte arida e semi-arida, e nell’impossibilità di stabilire rapporti di cooperazione con i vicini, le riserve d’acqua necessarie per lo sviluppo economico del Paese e per il benessere dei suoi abitanti. In virtù di questo imperativo idrico in Israele si è affermato un principio giuridico che considera l’acqua un bene pubblico di proprietà dello Stato, il cui uso è soggetto ad una rigida regolamentazione e che è stato codificato con la Legge idrica del 1959.

Con l’occupazione del 1967 Israele ha esteso la propria normativa, e la giurisdizione dei propri enti di gestione, alle risorse idriche dei territori occupati: le Alture del Golan, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. L’annessione giuridica e gestionale delle risorse idriche dei territori occupati ha comportato un capovolgimento della situazione preesistente, sia dal punto di vista formale sia da quello sostanziale. Se infatti, secondo le leggi vigenti fino ad allora nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, l’acqua era considerata una risorsa privata, con l’occupazione militare, e l’estensione della legge idrica israeliana del 1959 ai territori occupati, tutte le risorse, superficiali e sotterranee, divennero di fatto proprietà dello Stato di Israele, in violazione del diritto internazionale vigente, ed in particolare in deroga a quanto previsto dalla Convenzione dell’Aja del 1907, dalla IV Convenzione di Ginevra, dalla Dichiarazione sulla sovranità permanente sulle risorse naturali dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 14 dicembre 1962 e da altre risoluzioni dell’Assemblea sulla stessa materia: la 3005 (XXVII), la 3336 (XXIX) e la 32/162.

La guerra del 1967 ha segnato il rafforzamento della posizione idro-strategica israeliana rispetto a tutti i Paesi arabi confinanti. Le acquisizioni territoriali hanno garantito da allora ad Israele il controllo delle sorgenti del Banias, dell’alto corso dello Yarmuk – facendo di Israele un Paese upstreamer rispetto a Siria e Giordania (cioè rivierasco a monte – ndr) – e il controllo delle sorgenti del Giordano, di buona parte del suo corso e della totalità degli acquiferi sotterranei della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.  Come si vede dai dati (vedi in particolare la Tabella 1), gli acquiferi sotterranei e le risorse superficiali del Giordano rappresentano dal 1967 una rilevante risorsa per il fabbisogno idrico israeliano. Ma il controllo delle risorse idriche palestinesi, come dicevamo all’inizio, non è stato garantito soltanto attraverso l’occupazione militare. A partire dal 1967, Israele ha assunto la gestione diretta delle risorse idriche dell’area avviando una politica di restrizione dei consumi a danno della popolazione palestinese anche, e soprattutto, attraverso una serie di interventi legislativi ed amministrativi.

Formalmente il controllo idrico israeliano sui Territori palestinesi si è esercitato fino agli accordi di Taba nel 1995, che in parte hanno attribuito all’Autorità palestinese la gestione idrica di Gaza e di una porzione ridotta della Cisgiordania, ma sostanzialmente l’Accordo non ha intaccato il sistema vigente di restrizioni ed il meccanismo di controllo idrico è rimasto saldamente in mano israeliana. In pratica, dal 1967 in poi, tutto l’approvvigionamento e la gestione idrica dei Territori Palestinesi occupati è passata sotto il controllo dell’amministrazione militare israeliana e gli enti palestinesi preposti alla gestione delle acque a livello locale sono stati esautorati, prima e dopo Oslo, delle loro funzioni agendo sotto le direttive della potenza occupante.

Il censimento dei pozzi, l’imposizione delle quote di prelievo e delle tariffe e la concessione irrisoria di licenze di perforazione, hanno consentito a Israele di instaurare una prassi discriminatoria molto articolata che non solo ha consentito di installare e mantenere gli insediamenti coloniali nei territori occupati ma anche di controllare le risorse delle falde idriche sotterranee condivise con i palestinesi a beneficio dei territori israeliani al di là della Linea verde. Questo modello di gestione delle risorse idriche palestinesi ha creato le premesse per una situazione di de-sviluppo e di pauperizzazione che ha posto l’economia palestinese in una posizione di dipendenza totale da quella israeliana.

Lo strumento principale della politica idrica israeliana nei Territori palestinesi occupati è rappresentato dalla limitazione dello scavo dei pozzi garantito dal sistema di licenze di trivellazione e dalla fissazione delle quote massime per i prelievi. Ma altre forme meno dirette, anche se ugualmente efficaci, sono state esercitate attraverso una totale mancanza di investimenti per lo sviluppo ed il mantenimento dei sistemi idrici, la creazione delle infrastrutture e l’estensione dei sistemi fognari – che sono parte integrante del sistema idrico. Questa combinazione di riduzione dell’accesso alle risorse e di bassi investimenti nelle infrastrutture ha determinato in modo rilevante il quadro esistente nell’agricoltura palestinese e il numero esiguo di terre irrigate.

Come mostra la Tabella 2, in Cisgiordania i terreni agricoli sono per il 95 per cento sotto il controllo palestinese e per il 4,5 per sotto quello israeliano nelle colonie. Tuttavia i palestinesi riescono ad irrigare solo il 37 per cento dei propri terreni a fronte del 62 per cento israeliano e questo significa che, mentre i coloni israeliani possono irrigare il 90 per cento delle terre da loro coltivate, i palestinesi sono in grado di irrigarne solo il 2,5 per cento.

Questo modello di gestione delle risorse idriche nei Territori palestinesi occupati, oltre alle conseguenze che abbiamo appena esaminato dal punto di vista delle quantità e della qualità dell’acqua allocata, ha avuto profonde ripercussioni sull’economia palestinese e ha costituito negli ultimi quaranta anni uno dei principali ostacoli al suo sviluppo.

La strategia idrica israeliana, appena descritta, è stata sostanzialmente recepita e sancita dagli accordi di Oslo e dalla stessa Road Map, e non è difficile immaginare come una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese che non modifichi i termini del controllo territoriale e idrico attuale, ponga delle serie ipoteche sul futuro dell’entità palestinese. La soluzione dei due Stati, che ormai da tempo è vincente nelle retoriche politiche, se non dovesse mutare il quadro che abbiamo analizzato, limiterà di fatto a possibilità di dare vita ad uno Stato palestinese sostenibile dal punto di vista economico e sociale, oltre che politico.

Uno Stato che, come mostra la separazione fra i Territori Palestinesi ed Israele tracciata dal Muro, si troverà privato di ogni reale possibilità di esercitare prerogative sovrane sul proprio territorio, la propria popolazione e le proprie risorse naturali ed economiche.

(Serena Marcenò, ricercatrice universitaria, ha lavorato a partire dal 1996 in diversi programmi di cooperazione allo sviluppo in Medio Oriente. Ha curato con Salvo Vaccaro un Atlante geopolitico della questione palestinese pubblicato nel 2004).

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