Ha fatto comprensibilmente scalpore, prima dell’estate, la notizia che tra i terroristi islamici che progettavano attentati a Glasgow ci fossero anche alcuni medici. Notizia terribile. Ma che non può diventare lo spunto per una paura generalizzata dell’altro. Perché le nostre vite quotidiane, per fortuna, sono piene di storie di segno completamente opposto. E perché ci sono uomini coraggiosi che, nonostante abbiano patito di persona prove durissime, continuano ugualmente a prendersi cura di chi (in teoria) starebbe dall’altra parte della barricata.
È la storia del medico Adel Misk, palestinese e musulmano, uno dei protagonisti del Parents Circle, l’associazione che vede riunite insieme famiglie israeliane e palestinesi accomunate dall’esperienza dolorosa di aver perso un proprio caro a causa del conflitto. Si incontrano tra loro provando a capire ciascuno il dolore dell’altro. E vanno in giro in Israele e nei Territori a raccontare che riconciliarsi è un’esperienza dolorosa, ma possibile. Adel questa storia viene spesso a raccontarla anche in Italia.
Oltre le barriere. Neurologo, negli anni Ottanta Adel ha studiato all’Università di Parma e dunque conosce molto bene la nostra lingua. Ma il dottor Misk dalla sua ha anche un’altra esperienza importante: lavora sia in un ospedale israeliano a Gerusalemme Ovest, sia in un ospedale palestinese a Ramallah. «Una fortuna assai rara, di questi tempi», precisa lui. Perché tra muri e check-point anche per il personale sanitario le forme di collaborazione tra arabi ed ebrei sono diventate più difficili.
Durante la prima Intifada (quella delle pietre tra il 1987 e il 1992) Adel è stato un medico in prima linea. Ha curato i palestinesi feriti dall’esercito israeliano. Ma anche gli israeliani colpiti dalle pietre dei palestinesi. Tutto questo, però, non gli ha risparmiato il suo appuntamento con il dramma. È successo una sera del 1993: il dottor Misk sta rientrando a casa a Gerusalemme Est, dopo il suo turno in ospedale. A pochi isolati da casa trova la strada bloccata, ci deve essere stato un incidente. Da medico scende subito dall’auto per andare a prestare soccorso. E una volta fattosi largo tra la folla si trova davanti suo padre Juma a terra nel sangue, colpito da un colono israeliano. Un’esperienza terribile. I tentativi del figlio di rianimare suo padre si rivelano vani: Juma Misk arriva all’ospedale già morto.
«Mi chiedevo – racconta -: perché proprio a me? Nella mia vita ho aiutato tante persone. Perché ora devo piangere mio padre per questa morte violenta?». Fu l’inizio di un travaglio doloroso. Per nulla mitigato dalle aule dei tribunali. Il colpevole viene identificato, ma la pena che gli viene inflitta è morbida: per un omicidio solo quattro anni, di cui due a piede libero. «Sarebbe stata ben altra se un palestinese avesse ucciso nello stesso modo un israeliano», commenta amaramente il dottor Misk. Ancora sale sulle ferite, dunque. E poi quel lavoro in corsia: «Ti trovi davanti un paziente israeliano e la tentazione è forte. Rischi davvero di rivedere in lui chi ti ha fatto tanto soffrire».
Stop all’odio. Ma il dottor Misk ha detto no. Non si è arreso alla legge dell’odio. Ha continuato a fare il suo dovere di medico a Ramallah come a Gerusalemme Ovest. «Sono arrivato alla conclusione – ama dire – che, come tanti palestinesi, mio padre è stato ucciso per la semplice ragione che qui non c’è la pace. L’occupazione probabilmente ha portato noi palestinesi a soffrire di più – aggiunge -. Ma il dolore non è una gara. Israeliani e palestinesi abbiamo pagato tutti il prezzo più alto».
In questo suo percorso si è inserito l’incontro con Yitzhak Frankenthal, anche lui uomo ferito per quel figlio ucciso da un gruppo legato ad Hamas. Così, nel 1994, è nato il Parents Circle, che oggi riunisce circa 500 famiglie israeliane e palestinesi. Associazione vivace e non priva di travagli, come prova la vicenda di Frankenthal, che pur condividendone ancora gli ideali, nel 2005 l’ha lasciata. Perché la riconciliazione non è un happy end, ma un percorso fatto di lacerazioni che possono anche fare male.
Eppure va avanti. Come il lavoro quotidiano di Adel in corsia. Fonte di ispirazione anche per altri gesti forti. In uno dei periodi più duri della seconda Intifada, quando gli attentati suicidi e le rappresaglie dell’esercito si susseguivano con macabra puntualità, quelli del Parents Circle hanno lanciato un’idea: le donazioni di sangue incrociate. Sangue palestinese per soccorrere i feriti israeliani, sangue israeliano per soccorrere i feriti palestinesi. Le restrizioni sugli spostamenti hanno permesso di realizzarla solo parzialmente. Eppure il messaggio resta: anziché spargerlo il sangue è tempo di donarlo. Come ha scelto di fare un medico palestinese, un giorno triste di quattordici anni fa.