La voce di oggi non la prendiamo da un giornale del Medio Oriente: l'abbiamo ascoltata di persona, nella sede delle Edizioni Terra Santa a Milano, lunedì 8 ottobre. È la voce di Shireen Essawi, palestinese di Gerusalemme Est, che insieme ad Annat Marnin-Shaham, israeliana di Tel Aviv, ci ha parlato dell'esperienza del Parents Circle, l'associazione che riunisce insieme i familiari delle vittime del conflitto. Eravamo freschi di questa testimonianza quando abbiamo appreso da Shireen che in sua assenza gli agenti antiterrorismo israeliani erano stati di notte a casa sua, mettendo tutto a soqquadro.
Porta di Jaffa un po’ particolare: la voce di oggi, infatti, non la prendiamo da un giornale del Medio Oriente; l’abbiamo ascoltata di persona, nella sede delle Edizioni Terra Santa a Milano, lunedì 8 ottobre.
È la voce di Shireen Essawi, palestinese di Gerusalemme Est, che insieme ad Annat Marnin-Shaham, israeliana di Tel Aviv, ci ha parlato dell’esperienza del Parents Circle, l’associazione che riunisce insieme i familiari delle vittime del conflitto. Shireen e Annat tornavano da Assisi, dove con gli amici della Tenda della pace di Bellusco (Milano) hanno partecipato insieme alla Marcia della Pace Perugia-Assisi domenica 7 ottobre. Quella sera Shireen ci ha parlato della sua storia. Dei tre lutti vissuti dalla sua famiglia: la morte dello zio nel 1982 in Libano sotto un bombardamento israeliano; la morte della nonna, soffocata durante la prima intifada a causa del fumo dei gas lacrimogeni; la morte di Fadi, il fratello di Shireen, colpito a diciassette anni da una pallottola vagante sparata da un soldato israeliano nel 1994. Eppure Shireen si incontra con chi – dall’altra parte della barricata – ha sofferto lo stesso dolore per mano palestinese per dire insieme che l’odio non serve a mettere fine al conflitto. E dice che anche i suoi due fratelli, finiti in carcere nel 2002 a causa degli scontri a Ramallah, la sostengono in questo suo impegno.
Eravamo freschi di questa testimonianza quando abbiamo ricevuto una mail da Shireen: appena atterrata a Gerusalemme ha scoperto che gli agenti antiterrorismo israeliani erano stati di notte a casa sua, mettendo tutto a soqquadro. Hanno arrestato di nuovo suo fratello minore e hanno sequestrato dei file dal computer di Shireen, che di professione fa l’avvocato e lavora all’ufficio del ministero dell’Anp che si occupa dei diecimila prigionieri palestinesi tuttora nelle carceri israeliane.
Con gli amici di Bellusco abbiamo scritto a Shireen per esprimerle la nostra vicinanza. Questa è stata la sua risposta: «Ancora non ho notizie di mio fratello, ma continuo a credere che un giorno avremo una vita normale in pace. E io devo essere forte per continuare il mio lavoro per un futuro migliore. Oggi è festa (Eid al Fitr), è molto dura, ma domani ho un incontro con un gruppo di israeliani per parlare di pace e riconciliazione e questo mi dà la forza per andare avanti. Malgrado tutto crediamo ancora nella pace e ci diamo da fare per promuoverla». Parole importanti in una vicenda emblematica. Perché il rischio – ancora una volta – è quello di dividere i palestinesi tra buoni e cattivi. E pensare che il conflitto entri dentro alla vita solo dei secondi. Anche la questione dei prigionieri è una questione complessa. E illudersi che nelle carceri israeliane finiscano solo estremisti assetati di sangue – pronti a colpire il giorno dopo che verranno liberati – non è un modo per aiutare Israele a trovare la pace.
Clicca qui per leggere il comunicato della Tavola della pace sulla storia di Shireen