Il rapimento, ancora in corso mentre scriviamo, dei due sacerdoti cattolici Mazen Ishoa (35 anni) e Pious Affas (60), sequestrati a Mosul sabato 13 ottobre, pone ancora una volta sotto gli occhi del mondo la drammatica situazione in cui versano i cristiani in Iraq. Giorni addietro abbiamo riferito dell'appello lanciato dal Consiglio ecumenico delle Chiese preoccupato da una situazione che per l'intera popolazione civile irachena non va affatto migliorando. Quasi contemporaneamente, da Londra, anche il primate anglicano Rowan Williams ha detto la sua in un'intervista radiofonica dai toni molto franchi. Eccovene una sintesi.
(g.s.) – Il rapimento, ancora in corso mentre scriviamo, dei due sacerdoti cattolici Mazen Ishoa (35 anni) e Pious Affas (60), sequestrati a Mosul sabato 13 ottobre, pone ancora una volta sotto gli occhi del mondo la drammatica situazione in cui versano i cristiani in Iraq.
Giorni addietro abbiamo riferito dell’appello lanciato dal Consiglio ecumenico delle Chiese preoccupato da una situazione che per l’intera popolazione civile irachena non va affatto migliorando. Quasi contemporaneamente, da Londra, anche il primate anglicano Rowan Williams ha aggiunto la sua voce al coro di chi lancia l’allarme. In un’intervista radiofonica dai toni molto franchi, rilasciata alla Bbc il 5 ottobre, l’arcivescovo di Canterbury ha raccontato di un suo recente viaggio in Siria durante il quale ha avuto modo di incontrare circa 300 profughi iracheni accolti in una struttura della Chiesa siro-ortodossa non lontana da Damasco.
«Si trattava in gran parte – spiega l’ecclesiastico – di membri delle comunità cristiane irachene che volevano raccontarci cosa li aveva indotti ad arrivare lì e quali fossero le loro condizioni di esuli. Abbiamo ascoltato racconti da far rizzare i capelli. Erano senza dubbio storie di pulizia etnica mirata, architettata da determinati gruppi attivi in Iraq. Ci hanno raccontato di bombe incendiarie contro case e negozi, di rapimenti e omicidi. Mi hanno detto, ad esempio, di una giovane donna che stava viaggiando in auto con suo padre (entrambi membri di una famiglia cristiana). L’uomo venne ucciso a colpi d’arma da fuoco. Gli assassini, vedendo la ragazza coperta di sangue, che in realtà era quello del padre, pensarono che fosse morta e se ne andarono. Lei poté quindi tornare a casa, ma di lì a poco cominciarono a piovere minacce – "la prossima volta finiremo il lavoro" – e così fu costretta a fuggire. Se aggiungiamo storie come questa alle centinaia e migliaia di vicende simili ci rendiamo conto del terribile costo umano di quanto sta accadendo oggi in Iraq».
Alla domanda dell’intervistatore sulle ragioni di questa persecuzione l’arcivescovo di Canterbury offre la risposta che torna spesso sulle labbra dei leader cristiani di quell’area: «A partire dalla guerra in Iraq, le comunità cristiane irachene, che hanno vissuto in quelle terra per migliaia di anni, sono state percepite, in un certo senso, come agenti dell’Occidente. Gli esuli ci hanno raccontato che i messaggi minacciosi che giungevano loro suonavano più o meno così: "Siete agenti americani" oppure "Siete agenti sionisti e dovremo liberarci di voi". Nella testa di quella gente c’è un legame chiarissimo con la guerra. Possiamo ritenerlo giusto o sbagliato, ma è così che le cose vengono percepite da quelle parti. Eppure quei cristiani hanno vissuto dentro quella società per generazioni. Non sono estranei, non sono gli ultimi arrivati. Certo, fortunatamente sono solo piccoli gruppi estremisti a considerarli stranieri perché fa comodo ai loro interessi politici. Ma si tratta di gruppi senza scrupoli e con molte risorse».
«Sono sempre stato contrario all’invasione dell’Iraq – prosegue Rowan Williams – perché, come altri, temevo conseguenze simili a quelle che abbiamo sotto gli occhi. Comunque la pensiamo è chiaro che i nostri governi hanno la pesante responsabilità di trovare soluzioni ai problemi di questa gente. Garantire lo status e il benessere dei rifugiati e lavorare a quello che oggi sembra il compito impossibile di costruire una società che consenta loro di tornare in Iraq. Ora come ora, quando taluni parlano di una possibile spartizione dell’Iraq, i cristiani non vengono presi in considerazione. Non parlo mosso da una sorta di sciovinismo cristiano, per difendere la mia parte. La presenza dei cristiani in comunità come l’Iraq e la Siria fa parte di quella che potremmo chiamare una pluralista e tollerante tradizione di coesistenza nelle società arabe mediorientali, tradizione che è essa stessa sotto minaccia. La questione dunque non riguarda solo i cristiani. C’è in gioco molto più del futuro delle comunità cristiane».
Incalzato dall’interlocutore che gli chiede se i «nostri» leader politici avessero ben compreso le conseguenze della guerra in Iraq, il primate anglicano è netto: «Non so quali calcoli avessero fatto. Penso però che due cose siano chiare: gli effetti sulle comunità cristiane della regione sono stati gravemente sottostimati, le dimensioni del problema dei rifugiati sono state altrettanto sottovalutate. Così oggi in Medio Oriente il problema dei profughi è a livelli mai visti. Avevamo già i palestinesi, ora abbiamo anche un milione e mezzo, in aumento, di profughi iracheni. Per questo quando leggo di consiglieri politici americani che ipotizzano azioni contro la Siria e l’Iran, posso solo dire che considero quella come una follia criminale, ignorante e potenzialmente omicida. Vorrei dire ai nostri responsabili politici e agli Stati Uniti d’America che un deliberato piano di destabilizzazione di quella regione è una pazzia, una terribile pazzia. Mi chiedo su quale pianeta viva certa gente: quell’area è una polveriera. Se nazioni grandi come la Siria e l’Iran verranno destabilizzate vedremo il moltiplicarsi delle tragedie e molti altri milioni di sfollati».