«Guidavamo un veicolo di trasporto truppe attraverso Rafah. Un uomo di 25 anni camminava vicino. Non ci lanciò pietre o altro. Senza nessuna ragione, X gli sparò allo stomaco. Lo lasciammo che giaceva a bordo strada». Così un israeliano ricorda un momento della sua esperienza militare alla psicologa Nofer Ishai-Karen, che ha realizzato una ricerca per conto dell'Università ebraica di Gerusalemme. A lei ventuno soldati hanno raccontato le emozioni, le paure, ma soprattutto i deliri dei giorni in servizio durante la prima intifada, esplosa tra i palestinesi esattamente vent'anni fa. Sul dossier raccolto dalla studiosa il quotidiano Haaretz ha recentemente pubblicato un articolo nel supplemento settimanale Hebrew Weekend, edizione in ebraico. Vi proponiamo alcuni dei suoi contenuti.
La premessa, d’obbligo, è che le testimonianze si riferiscono a episodi accaduti quasi due decenni fa. Il timore, però, è che i pestaggi, i maltrattamenti, le violenze gratuite verificatesi nel corso della prima intifada (1987-1993) si ripetano, uguali a se stessi, ancora oggi. Perché la sindrome del soldato in guerra, quel delirio basato su senso di impunità e percezione d’onnipotenza, è un film purtroppo comune, a detta degli esperti, a tutti i conflitti.
«Noi soldati israeliani venivamo mandati lì per punire i palestinesi – racconta senza tanti giri di parole Ilan Vilenda, a Rafah durante la prima intifada – Il nostro lavoro era picchiarli. Ci comportavamo come poliziotti ma agivamo fuori dalla legge».
Non che dall’altra parte si andasse tanto per il sottile. Gli attacchi ai civili e le granate contro le truppe di Israele, più che i simbolici lanci di pietre a mani nude così «cari» alle tivù di tutto il mondo, causavano vittime e lutti anche tra gli israeliani. Questo per dire del retroterra di angoscia, frustrazione, forse anche della paura dei giovani israeliani inviati a combattere, chiamati a difendere il proprio popolo e però resisi protagonisti, in alcuni casi, di terribili crimini.
«Guidavamo un veicolo di trasporto truppe attraverso Rafah. Un uomo di 25 anni camminava vicino. Non ci lanciò pietre o altro. Senza nessuna ragione, X gli sparò allo stomaco. Lo lasciammo che giaceva a bordo strada». Così il soldato E ricorda un momento della sua esperienza militare alla psicologa Nofer Ishai-Karen. A lei, che con lo stesso battaglione Ashbal ha svolto il servizio militare due decenni fa, ventuno soldati (tutti in via anonima, tranne Ilan Vilenda) hanno raccontato le emozioni, le paure, ma soprattutto i deliri di quei giorni. Basandosi su questo dossier, una ricerca accademica condotta dalla Ishai-Karen e dal suo collega Joel Elitzur per conto della Hebrew University, Dalia Karpel ha pubblicato un articolo sul supplemento settimanale Hebrew Weekend, edizione in ebraico del quotidiano israeliano Haaretz, il 21 Settembre 2007. Lo stesso articolo non è stato però pubblicato sulla versione inglese di Haaretz.
È il soldato D a descrivere bene quell’«intossicazione di potere» di cui molti militari israeliani arrivano a nutrirsi nelle lunghe ore di pattugliamento: «La cosa grandiosa è che non devi seguire nessuna legge o regola. Senti che tu sei la legge; tu decidi. Una volta che vai nei Territori Occupati tu sei Dio». È quel senso di onnipotenza che arriva a sublimarsi in vera e propria ideologia, stando alla testimonianza del soldato F, e che prevede la reazione più dura e brutale anche nei confronti degli eventi minori: «Una donna mi aveva tirato un sandalo. La schiacciai col piede sul pube. Le ruppi l’osso. Non potrà mai più avere figli. La prossima volta non mi tirerà un sandalo addosso. E quando un’altra donna mi sputò, le tirai il calcio del fucile in faccia. Adesso non può più sputare».
Non sono mai semplici e finiscono sempre col sembrare capziose, anche nei conflitti più «convenzionali» – figurarsi in quello israelo-palestinese, così complicato, così intricato – le distinzioni tra «buoni» e «cattivi», tra «vittime» e «carnefici». E però fanno male queste testimonianze, male anche e soprattutto all’onore di quegli uomini di valore che l’esercito israeliano schiera tra le sue fila. Perché se la «scheggia impazzita» è quasi insita nella natura stessa del gruppo ribelle, dall’esercito regolare di uno Stato democratico ti aspetteresti invece sempre la correttezza e l’integrità morale, anche in quei casi in cui è più difficile mantenerla.
È la stessa psicologa Ishai-Karen a ricordare come invece alcuni ufficiali «incoraggiavano i soldati a comportarsi brutalmente, e davano loro l’esempio». Ecco cosa ricorda il soldato H: «Dopo due mesi che ero a Rafah, arrivò un nuovo comandante Nco. Rafah era sotto coprifuoco. Non c’era un anima per strada. Poi vide un bambino, di circa quattro anni, che giocava nel cortile di casa. Stava costruendo un castello di sabbia. All’improvviso l’ufficiale, un ragazzo dei Corpi Ingegneri, corse per acciuffare il bambino. Noi gli andammo dietro. Prese il bambino e gli ruppe il gomito. Ruppe il gomito del bambino! Che io sia dannato se non sto dicendo la verità. Poi l’ufficiale camminò sullo stomaco del bambino tre volte, prima di andare via. Non potevamo credere ai nostri occhi, ma il giorno dopo andammo di pattuglia con quel tipo, e i soldati cominciarono ad imitarlo».
A giocare un ruolo ben definito, nelle violenze di quei giorni, è anche la complicità che si viene a creare tra i protagonisti di quei crimini. È quella che la psicologa Ishai-Karen chiama «solidarietà tra combattenti», e che nell’esercito israeliano conserva un valore sacro. La tendenza, insomma, anche a fronte di una denuncia circostanziata ai superiori, era quella di difendere le «mele marce» e a considerare invece come dei «traditori» i soldati più coscienziosi. Sono poi le stesse testimonianze dei militari a rivelare come i comandanti (o quanto meno una parte di essi) fossero «consapevoli della deriva verso la violenza» e l’hanno anzi «incoraggiata». «Gli ordini lasciavano un ampio spazio, un margine… di intenzionale non specificata "zona grigia", che incoraggiava il comportamento violento dei soldati», ha detto il colonnello riservista Elisha Shapira, che ha svolto servizio nella zona di Nablus nello stesso periodo.
Ciò che rimane, a quasi due decenni dagli eventi raccontati alla psicologa Ishai-Karen, è un senso di amarezza rafforzato dal fatto che le ostilità israelo-palestinesi siano, peraltro, ancora in corso. Lo stallo diplomatico è anzi semmai aumentato, soprattutto dopo la conquista della Striscia di Gaza, lo scorso giugno, da parte del movimento estremista di Hamas. Da una parte e dell’altra, bambini e adulti continuano a soffrire le conseguenze di una situazione allo sbando. Pregando che un giorno le «mele marce» da un lato e i kamikaze dall’altro siano finalmente rimpiazzati da un unico, solido, ponte di pace.