«E tu le legherai (le parole divine rivelate al Sinai) come segno sul tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi, e tu le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della città» (Dt 6,8-9). Questo insegnamento, sul quale si fonda il precetto relativo ad alcuni segni particolari da utilizzare durante la preghiera e da apporre agli stipiti delle porte di casa e della città, è più volte ripetuto nella Torah – l’insegnamento divino rivelato al Sinai – e ampiamente commentato nella tradizione rabbinica.
Come ricorda rav Giuseppe Laras riprendendo una riflessione di Aharon Halevi – un famoso maestro del XIV secolo autore del Sefer Hachinnukh («Il libro dell’educazione») – «la vita dell’ebreo è una vita consacrata, nel senso che tutte le sue azioni debbono ispirarsi alla volontà di Dio, espressa nella Torah attraverso le mitzwot (i «precetti»). Alcune di esse hanno il preciso scopo di ricordarci questa peculiarità: che la nostra vita deve svolgersi nel segno della Torah, cioè conformemente alle sue prescrizioni, ai suoi principi, ai suoi ideali. È per questo che i tefillin, (come anche lo tzitzit – la frangia del tallit – e la mezuzah) sono chiamati segni, una sorta cioè di segnali o indicatori miranti a farci ricordare nella quotidianità i nostri doveri e i nostri compiti» (in Legarsi alla mitzvà, Morashà, Milano 1998-5758, p. 7). Sia nei tefillin (o filatteri) che nella mezuzah sono infatti contenuti brani della Scrittura che ricordano all’ebreo la sua identità e l’impegno di «ascoltare facendo» assunto al Sinai (Es 24,7), in particolare il suo appartenere ad un popolo liberato da Dio per servirlo attraverso una testimonianza di santità fra le genti e la professione di fede che si esprime attraverso un costante atteggiamento di ascolto nei confronti della Sua Parola: «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno…» (Dt 6,4), nel senso anche di «unico» capace di salvare.
La collocazione di questi «segni» è carica di valore simbolico: i tefillin vengono infatti posti sul capo, per ricordare all’uomo il limite della sua razionalità, e sul braccio sinistro all’altezza del cuore, per ribadire che ogni insegnamento rivelato deve raggiungere la persona nella sua indivisibilità di corpo e spirito che – secondo l’antropologia biblica – è individuabile in questo centro vitale sede dei sentimenti, della volontà e della ragione.
In entrambi i casi i tefillin vengono legati alla persona attraverso strisce di cuoio che, sulla fronte, cingono come una sorta di corona, mentre sul braccio vengono attorcigliate fino a comprendere la mano e il dito medio – come se fosse un anello matrimoniale – accompagnando il gesto con le parole del profeta Osea: «Ti destinerò a mia sposa per sempre, ti destinerò a mia sposa dandoti giustizia, diritto, bontà e misericordia, ti destinerò a mia sposa dandoti fedeltà, e riconoscerai che io sono il Signore» (Os 2,21-22).
La mezuzah invece si applica sullo stipite destro delle porte, all’altezza degli occhi e della spalla, per poterla vedere, sfiorare, toccare e baciare, per fare «memoria» dell’insegnamento divino che deve guidare i passi di coloro che abitano in quel luogo.
Insegna la tradizione ebraica: «Chi pone i tefillin sulla fronte e sul braccio, chi lega lo tzitzit (frangia) agli abiti e attacca la mezuzah alla sua porta è protetto dal peccato poiché è detto: "La corda a tre capi non si rompe tanto facilmente" (Qo 4,12)» (Talmud Babilonese, Menachot 43b).