Le ruspe israeliane arrivano all’alba, quando i colori del deserto sono ancora impastati. Sollevano nuvole di polvere lungo la strada sterrata che porta al villaggio di Al Tawayil, nel Negev, lontano decine di chilometri dai fronti caldi di Gaza e della Cisgiordania. I caterpillar si fermano un attimo, come per riprendere fiato, e partono poi all’assalto di una trentina di baracche e tende. Il fragore squarcia l’immobilità dell’aria: lamiere, pali di legno, mobilia, tendaggi sono ridotti ad un groviglio informe di macerie. Cento persone, uomini, donne, bambini, assistono con sgomento alla scena. In pochi minuti hanno perso il loro tetto e si ritrovano in mezzo al niente, con qualche pecora e cammello.
Sono cittadini israeliani, ma si collocano a un gradino talmente infimo della scala sociale che per loro nessuno si mobilita, a differenza di ciò che avvenne per i coloni ebrei di Gaza. Fanno parte infatti di quella moltitudine di 70 -100 mila beduini considerati dal governo abusivi, perché si rifiutano di abbandonare i territori dove hanno sempre vissuto per lo più una esistenza nomade e di farsi urbanizzare nelle cittadine ghetto predisposte per loro dallo Stato ebraico. Sono un popolo fantasma. Al Tawayil, come altri 44 villaggi beduini, non compare su nessuna carta geografica. Ufficialmente sono insediamenti «non riconosciuti». E di conseguenza le autorità locali si rifiutano di fornire acqua, elettricità, assistenza sanitaria o scolastica. I bambini devono fare chilometri e chilometri ogni giorno per andare a scuola in qualche area «riconosciuta». Tutte le costruzioni sono state edificate senza permesso, dato che non vi è nessun municipio a cui richiedere una licenza edilizia. Il risultato è che su 30 mila abitazioni di beduini, poco più che casupole, incombe la continua minaccia di distruzione. In effetti, le azioni delle ruspe contro gli insediamenti «illegali» nel deserto del Negev, come quella avvenuta l’8 maggio 2007 ad Al Tawayil, sono talmente frequenti che i media israeliani o arabi vi prestano poca attenzione, al massimo qualche trafiletto di cronaca. Così, nel silenzio e nella dimenticanza totali, si consuma, all’ombra delle tante tragedie della Terra Santa, anche il dramma della minoranza beduina, di etnia araba, di fede musulmana (i cristiani sono solo qualche decina), inglobata d’autorità nello Stato israeliano.
David Ben Gurion, fondatore della Nazione, ebbe da subito altri progetti per il futuro del Negev: vedeva in quegli spazi sconfinati un territorio destinato a fiorire e a popolarsi di tutti i futuri immigrati che non avrebbero trovato posto nei luoghi biblici. Sin dagli inizi, anche il Negev fu percepito dai leader sionisti come un vacuum domicilium o una terra di nessuno: i beduini erano considerati nomadi senza radici, senza legami o diritti territoriali. Anche se rivendicavano la proprietà del 94 per cento del totale del Negev, non avevano alcun documento scritto per dimostrarlo. Il loro continuo girovagare rendeva difficile un controllo e poneva una minaccia alla sicurezza del nuovo Stato. Il loro legame con la terra insidiava il compito di «redenzione» fisica della patria intrapreso dal lavoro agricolo dei kibbutz. Così, dei circa 60 mila beduini che all’epoca della nascita di Israele popolavano il deserto, la maggior parte venne espulsa o trovò asilo in Giordania e in Egitto. Gli 11 mila rimasti furono concentrati in aree chiuse, e costretti a vivere per 18 anni sotto regime militare. Nel frattempo, l’85 per cento del Negev veniva trasformato in colonie ebraiche, in zone militari e off limits per la ricerca e le installazioni nucleari, in parchi nazionali. Negli anni Sessanta venne poi avviato il cosiddetto «programma di sedentarizzazione», ovvero l’inurbamento forzato dei beduini nelle sette città costruite appositamente per loro. Ciò che avevano in mente i dirigenti israeliani è descritto efficacemente nelle parole risalenti al 1963 del generale Moshe Dayan: «Dobbiamo trasformare il beduino in un proletario urbano per l’industria, i servizi, l’edilizia, l’agricoltura. Il beduino non deve vivere sulla sua terra con i suoi allevamenti, ma deve divenire una persona che torna a casa nel pomeriggio e si mette le pantofole… I suoi bambini devono andare a scuola con i capelli ben pettinati. Deve essere una rivoluzione, per la quale – presumibilmente – ci vorranno due generazioni. Il fenomeno dei beduini scomparirà».
A quasi 25 anni di distanza, la rivoluzione vagheggiata dal mitico generale israeliano è sostanzialmente fallita. I beduini non sono scomparsi. Tutt’altro. Da 11 mila rimasti agli inizi degli anni Cinquanta, sono adesso 160-180 mila. Il loro tasso di crescita è il più alto del mondo. La loro popolazione raddoppia ogni quindici anni, e per il 2020 i beduini di Israele saranno oltre 300 mila. Attualmente solo la metà di loro ha rinunciato a rivendicazioni territoriali ed ha accettato di andare a vivere nelle 7 città predisposte dal governo: Rahat, Keseifa, Sgev Shalom, Aro’er, Lakiya, Tel Sheva e Hura. Si tratta di agglomerati urbani squallidi, sovrappopolati e che guidano le statistiche israeliane della criminalità e della miseria: il 60 per cento dei bambini vive sotto la soglia della povertà, il 38 per cento della popolazione è disoccupata. Il traffico di stupefacenti è una delle risorse primarie, insieme al furto d’auto: secondo le autorità di polizia, dalle 50 alle 60 tonnellate di marijuana vengono contrabbandate attraverso il confine israelo-egiziano (Negev – Sinai). Distrutta l’identità tribale, nelle cittadine-ghetto, domina la legge mafiosa dei racket e delle bande. Di tanto degrado, lo Stato israeliano si scarica ogni responsabilità: i beduini – si legge in un recente documento governativo – non pagano le tasse e ciò impedisce ai municipi di garantire i servizi e la sicurezza necessari alla popolazione.
Altri 80 mila nomadi non hanno voluto urbanizzarsi e piuttosto che rinunciare alle loro tradizioni di esistenza secolari, preferiscono vivere in villaggi provvisori, fatti di abitazioni dai tetti di lamiera ondulati e pareti di cartone. Gli «abusivi» si concentrano lungo l’autostrada che taglia il deserto e scende da Beersheva fino ad Eilat sul Mar Rosso. I loro unrecognized villages, come li definisce la legge dello Stato ebraico, sorgono a ridosso di impianti chimici, di discariche, inceneritori. Gli spazi delle transumanze e dei pascoli si sono ridotti ad un nulla: il Negev è stato imprigionato da muri e fili spinati, trasformandosi in un enorme campo militare; solo l’impianto di Dimona, da cui sono uscite forse già cento testate nucleari, ha mangiato decine e decine di chilometri quadrati.
Verso i beduini illegali, il governo attuale, come i precedenti, continua ad adottare la politica del bastone e della carota. Il bastone sono le demolizioni improvvise di casupole e tende, le angherie delle cosiddette «pattuglie verdi», create a suo tempo dall’ex premier Ariel Sharon, i pesticidi spruzzati dagli aeroplani per distruggere le coltivazioni, la minaccia di carcere fino a sei mesi per chi occupa abusivamente il territorio dello Stato. La carota è rappresentata dall’impegno a costruire altre otto città destinate alle tribù beduine che non hanno trovato spazio nelle sette già edificate. Il governo promette fondi, servizi e abitazioni all’avanguardia, spazi verdi per il bestiame. C’è un prezzo da pagare: la rinuncia definitiva da parte dei clan alla rivendicazione della proprietà di 600 mila dunum di terra (60 mila ettari o 230 mila miglia quadrate) nel deserto del Negev. Alcune tribù hanno detto di sì, altre continueranno la loro resistenza, in quel simulacro di vita nomade che riescono ancora a condurre.
Tra gli urbanizzati e gli illegali si sta però insinuando il fondamentalismo islamico. I beduini rischiano così di trasformarsi in una minoranza piena di rancore e di saldare le loro aspirazioni frustrate alla lotta dei gruppi più estremisti palestinesi o delle milizie sciite libanesi. La scorsa estate in uno dei tanti villaggi illegali, un gruppo di giovani ha inscenato una manifestazione inneggiando al leader degli Hezbollah Hassan Nasrallah e gridando lo slogan: «Il nemico d’Israele è mio amico».