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A quattro anni dalla cacciata di Saddam la situazione nel Paese è tutt'altro che pacificata. A pagare uno dei prezzi più alti oggi sono i cristiani, che subiscono una vera e propria persecuzione e sono costretti a lasciare in massa l'Iraq.

Iraq. Il grido dei cristiani

Elisabetta Mancini
11 luglio 2007
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Iraq. Il grido dei cristiani
Devastazione in un quartiere cristiano di Baghdad.

Omicidi, attentati, sequestri, violenze. È un quadro a tinte quanto mai fosche  quello che mostra l’Iraq. Un Paese stravolto, costretto a fronteggiare un dopoguerra di terrore e barbarie. La popolazione è allo stremo, fiaccata dal «tutti contro tutti» che non sembra risparmiare nessuno, con le minoranze schiacciate da una campagna di persecuzione sempre più aggressiva.

Anche i cristiani non sfuggono a questo destino e, su un terreno accidentato e irto di pericoli si trovano a muoversi quotidianamente e a contare i propri morti, con la lista dei consacrati uccisi dagli estremisti islamici che continua ad allungarsi (ne parliamo anche nella rubrica Mediterranea). Mentre la comunità internazionale si interroga sul da farsi, le possibili soluzioni per interrompere la scia di sangue sembrano lontane dall’offrire un orizzonte sgombro dalle nubi.

Il cosiddetto «progetto della Piana di Ninive» ne è un esempio. Il piano prevede l’assegnazione ai cristiani di una regione autonoma nella Piana di Ninive appunto, una zona sotto la giurisdizione di Mosul, proposta contro la quale si sono già espressi in molti.  «Chiudere i cristiani in un ghetto non servirà a salvarli», ha tuonato l’arcivescovo di Kirkuk, monsignor Louis Sako, tra le figure di spicco della Chiesa caldea. I cristiani iracheni, a parere del presule, devono rimanere uniti e affrontare insieme le persecuzioni. Un appello rivolto ad una realtà ecclesiale molto articolata, comprensiva di antichissime comunità come la Chiesa cattolica caldea, la Chiesa di Antiochia dei siro-cattolici e dei siro-ortodossi, la Chiesa assira d’Oriente, la Chiesa armena cattolica e ortodossa, la Chiesa melchita (greco-cattolica). Un mosaico di riti, spiritualità e tradizioni che oggi rischia di soccombere di fronte alle continue intimidazioni degli estremisti e di sparire, a cominciare dalle grandi città, dove pressioni, ricatti e violenze sono più forti, mentre il sequestro è, oltre all’omicidio, tra i metodi persecutori più utilizzati.

Per meglio comprendere quanto sta accadendo, abbiamo raccolto la lucida testimonianza di un sacerdote cattolico iracheno che, per motivi di sicurezza, ha chiesto di poter mantenere l’anonimato. «Il sequestro – spiega il sacerdote – è solo uno degli strumenti che rientrano in una strategia più articolata messa in atto dagli integralisti islamici per cambiare la struttura sociale del Paese. I cristiani sono perseguitati, ma non solo loro. Le minoranze sono schiacciate e attualmente, in Iraq, è difficile individuare il nemico, ognuno lotta per prevalere sull’altro».

La mancanza di sicurezza è la variabile impazzita che favorisce il clima di violenza: «Non c’è autorità, non esiste ordine pubblico. I partiti politici sono impotenti, non hanno capacità e possibilità di movimento». A parere del religioso il problema è che i partiti alla guida dell’Iraq, non avendo compiuto un normale percorso di ascesa al potere politico, non sono in grado di governare. «Il Partito Bath resta il più forte. Ha lavorato tanti anni con tutti gli strumenti messi a disposizione dai servizi segreti del vecchio regime, che ancora oggi sono in attività e si muovono con una discreta tranquillità. La capacità di penetrazione di cui disponevano prima della caduta di Saddam Hussein la utilizzano oggi per minacciare e ricattare non solo gli esponenti politici, i personaggi in vista, ma anche le cosiddette "persone normali". L’amministrazione Bush nel nostro Paese ha compiuto un grande errore di valutazione: ritenere che l’eliminazione di Saddam avrebbe risolto ogni problema dell’area».

In questo contesto la situazione politica generale non è di conforto. Nelle prime libere elezioni del 2005, i cristiani hanno presentato una sola lista autonoma, al-Rafidain. Altri candidati si sono presentati in formazioni curde o in altri partiti minori. Giocoforza, gli eletti non hanno sufficiente influenza sulle decisioni della propria lista. «L’Iraq – denuncia il nostro interlocutore – è terra del più forte e le minoranze soccombono, schiacciate dalla persecuzione. La situazione nella quale ci troviamo noi cristiani è gravissima. Siamo costantemente minacciati dai gruppi armati. Si tratta di fanatici che ci stanno privando di ogni cosa: la casa, i beni e, di conseguenza, il lavoro. L’arma del sequestro viene impiegata sia per motivi di lucro che per convincere con la forza a convertirsi all’islam. Pagare e cambiare credo religioso è l’unica via per aver salva la vita. Evitare questo destino è il motivo che spinge i cristiani alla fuga dalle città».

La capitale è al momento la città più a rischio: «A Baghdad i rapimenti sono un fenomeno tristemente frequente. È qui che si concentrava una vasta comunità di cristiani che, prima del conflitto, si era trasferita dal nord del Paese nella capitale per motivi di lavoro. Ora il flusso migratorio si è invertito, i cristiani stanno tornando di nuovo nelle zone settentrionali. Fuggono lasciando ogni avere».

«Spesso – aggiunge il sacerdote – non si ha neanche il tempo di prendere i documenti di identità. In alcune città del nord nel giro di due anni la popolazione è cresciuta del 30 per cento. Il problema è che non ci sono infrastrutture, mancano le abitazioni, il lavoro».

Coloro che decidono di fuggire in Kurdistan, in Siria o in Giordania non vanno incontro ad un destino migliore. «In un Paese come la Siria vivono oggi oltre un milione di iracheni: sono costretti a vivere una vita di estremo di sagio, difficile da immaginare nel quotidiano, senza prospettive future». I timori del sacerdote circa quanto accadrà negli anni a venire si concentrano sulla questione della corruzione che imbriglia l’Iraq: dubbi che investono anche chi si sta adoperando per aiutare i cristiani. Ci sono alcuni leader impegnati in un piano di riqualificazione della presenza cristiana nel Paese, ma il timore del sacerdote è che queste iniziative siano ispirate da motivi non sempre trasparenti, legate ad esempio allo scambio dei voti per le elezioni. Altro aspetto delicato è la difficoltà di gestire gli aiuti umanitari diretti in Iraq e a denunciarlo sono le stesse organizzazioni internazionali. «Alla luce di questa realtà, tornare a stabilizzare il Paese non sarà un’impresa semplice. Eppure bisogna tentare. Sarebbe immorale che, dopo aver innescato questa terribile situazione, gli Stati Uniti ritirassero le proprie  truppe. Ci condurrebbe al disastro totale».

Il nostro interlocutore non ha peli sulla lingua, quando parla dell’«alleato» americano: «Intervenendo in Iraq, gli Stati Uniti per primi si sono resi responsabili di quanto accaduto e, anche se non riescono per ora a mettere fine a questa tragedia, hanno il dovere di restare. Lo stesso vale per la comunità internazionale. Chi si è schierato allora, deve ora mantenere questa linea per dare respiro al nostro popolo». L’affaire Iraq non può però essere preso in esame tralasciando ciò che sta accadendo nel resto del Medio Oriente. «La questione irachena – dice – va inserita nel discorso più generale che investe l’intera regione. Nell’area gli interessi economici sono molti, specialmente nel Golfo, mentre l’Afghanistan rientra in una strategia geo-politica più vasta per cambiare faccia a questo spicchio di mondo».

Ma è l’aspetto religioso forse più di quello economico – spiega il sacerdote – ad incidere profondamente su quanto sta avvenendo: «È in corso una guerra che strumentalizza le tre grandi religioni monoteiste, ognuna delle quali si contrappone all’altra per conservare e consolidare le proprie posizioni. Questa terra è stata la culla dell’ebraismo, dell’islam e del cristianesimo, nessuno è disposto a lasciarla, ognuno vuol renderla sua. In questo contesto la pace è difficile da raggiungere. Credo profondamente nella profezia su Gerusalemme contenuta nel Vangelo di Matteo: "Sarà calpestata dalle genti". Gerusalemme è divenuta, con la globalizzazione, l’intera zona mediorientale, i confini si sono allargati. Non possiamo ignorare che i Paesi vicini alla Palestina abbiano lo stesso modo di pensare dei palestinesi, la stessa cultura, lo stesso obiettivo e lo stesso nemico».

Da qui prende il via il problema del terrorismo che, per il sacerdote iracheno, «sta mettendo radici profonde proprio su questo terreno fatto di odio e di violenza. Si commette un grave errore a considerarlo semplicemente una forza militare che si può sconfiggere con le armi: il terrorismo islamico è un’ideologia che non è facile abbattere con gli eserciti ed è una minaccia che sarà difficile da estirpare, si trasmetterà da una generazione all’altra. Il messaggio terroristico è stato assorbito non solo da chi è coinvolto direttamente nella guerra, ma anche dalla gente normale, dalle persone semplici che dispongono di strumenti culturali limitati. In molte zone dell’Iraq, ma non solo, le parole del capo religioso, dell’imam, hanno un peso specifico drammaticamente rilevante. In molti casi, dove c’è un imam fanatico, si annida una potenziale minaccia».

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