Il Jerusalem Day (la commemorazione della fine della Guerra dei sei giorni, con la «riunificazione» di Gerusalemme, ha scatenato - ed era inevitabile - una ridda di polemiche. Gerusalemme, considerata da Israele capitale unica e indivisibile, è ugualmente rivendicata dai palestinesi. Pochi, in questo ping pong politico, considerano la centralità della città anche per un miliardo di cristiani nel mondo. A Gerusalemme sorgono i più importanti santuari cristiani. Per questa ragione la Santa Sede si è sempre adoperata per garantire alla città uno statuto garantito dal diritto internazionale, il solo capace di affrancarla dalle dispute politiche permettendo libero accesso ai Luoghi santi per tutte le religioni. Ce ne parla lo storico Paolo Pieraccini.
Oggi Gerusalemme celebra la sua «riunificazione», una data che coincide con la fine della Guerra dei sei giorni (il 7 giugno secondo il nostro calendario, il 28 di Iyar secondo il calendario ebraico, che corrisponde appunto al 16 maggio). Per lo Stato ebraico Gerusalemme, in base ad una legge del 1980, è la capitale unica e indivisibile d’Israele, la sede del primo ministro e del parlamento. Per i palestinesi, che ugualmente rivendicano la città come capitale, è una città occupata. La data di oggi, per la parte araba, fa memoria della catastrofe di un popolo costretto a lasciare le proprie case.
L’anniversario della Guerra dei sei giorni e la celebrazione del Jerusalem Day (partita in sordina con una serie di manifestazioni pubbliche il 23 aprile, la celebrazione della «riunificazione» di Gerusalemme ha conosciuto l’inevitabile esplosione di polemiche alla notizia che gli ambasciatori di Unione Europea e Stati Uniti in Israele non avrebbero presenziato oggi alla cerimonia presso il parlamento) offre l’occasione per riconsiderare uno degli aspetti poco trattati nella questione. Città santa per oltre un miliardo di cristiani, Gerusalemme è da sempre al centro delle preoccupazioni anche della Santa Sede.
Proprio per capire qual è la posizione della Chiesa cattolica circa la città santa, abbiamo incontrato Paolo Pieraccini, storico e saggista, autore di Gerusalemme, luoghi santi e comunità religiose nella politica internazionale (Edb, Bologna, 1997) e La questione di Gerusalemme (Il Mulino, Bologna, 2005).
Professor Pieraccini, come guarda la Santa Sede a Gerusalemme?
Tra il 1948 e il 1967 la Santa Sede ha chiesto con forza l’attuazione della risoluzione 181 del 29 novembre 1947, che divideva la Palestina in uno stato ebraico e uno arabo prevedeva costituiva Gerusalemme in corpus separatum, governato dalle Nazioni Unite. Il 9 dicembre 1949, con l’approvazione della risoluzione 303 (IV), la Santa Sede conseguì un grande successo diplomatico. La risoluzione, che chiedeva l’applicazione di un regime internazionale per la Città Santa, fu votata da gran parte dei Paesi cattolici, dagli stati arabi e da quelli comunisti. All’inizio del 1950 il Consiglio di amministrazione fiduciaria cercò di elaborare lo statuto di Gerusalemme in base alle indicazioni contenute nella risoluzione 303. Ma il ritiro dell’appoggio dei Paesi del blocco sovietico all’internazionalizzazione territoriale indebolì il progetto.
La Guerra dei sei giorni ha avuto conseguenze sulla politica vaticana?
Dopo la Guerra dei sei giorni (giugno 1967), molteplici fattori contribuirono a far mutare l’orientamento alla Santa Sede sulla questione di Gerusalemme. I più importanti furono la disfatta degli eserciti arabi, che rese altamente improbabile un ritorno a breve termine alla situazione precedente; la determinazione degli israeliani a rimanere saldamente in possesso della città; il disinteresse della comunità internazionale e di gran parte delle stesse Chiese cristiane per il concetto di corpus separatum. Inoltre la capacità della Santa Sede di influire sulle decisioni dell’Onu era notevolmente diminuita. Gli stessi Paesi arabi tendevano ormai a domandare un ritorno alla situazione precedente al conflitto, piuttosto che un regime internazionale. Perciò il 22 dicembre 1967, in un’allocuzione al sacro collegio Paolo VI, mentre abbandonava la formula dell’internazionalizzazione territoriale, ribadiva la necessità di garantire libertà di culto e di accesso ai Luoghi Santi e adeguate condizioni per la sopravvivenza di una vitale comunità cristiana attorno ad essi.
Un passo indietro rispetto all’internazionalizzazione della città.
In questo documento Paolo VI domandava per santuari e comunità religiose di Palestina lo stesso elevato grado di tutela giuridica. Intendeva opporsi alla posizione ufficiale espressa dagli israeliani con la proposta di internazionalizzazione funzionale e con la legge sui Luoghi Santi del giugno 1967, la quale mirava a ridurre l’intera questione dei diritti cristiani ai soli santuari. Per il pontefice era necessario tutelare la fisionomia storica e religiosa di Gerusalemme nel suo complesso, in modo da impedire che trasformazioni di tipo architettonico, urbanistico, demografico e socio-culturale potessero alterarne il carattere sacro.
Qual è la visione vaticana oggi?
Con Giovanni Paolo II la posizione della Santa Sede si è ulteriormente precisata: il pontefice ha ripetutamente affermato che la questione della Città Santa deve essere risolta garantendone il carattere sacro, i diritti delle sue comunità religiose e quelli relativi allo status quo dei Luoghi Santi, mediante un sistema giuridico appropriato garantito da una superiore istanza internazionale.
L’accordo israelo-vaticano, firmato il 30 dicembre 1993, riguardo ai Luoghi Santi contiene una novità importante: Israele e Santa Sede si impegnano a mantenere e rispettare lo status quo e i diritti delle altre comunità cristiane ad esso interessate (articolo 4). Il 15 febbraio 2000 la Santa Sede ha stipulato un’intesa anche con l’Olp. In questo documento, come in quello siglato con Israele, non si è inteso affrontare la questione territoriale di Gerusalemme. Tuttavia, nel lungo preambolo dell’intesa del 2000 sono stati ribaditi i legittimi diritti del popolo palestinese e la tradizionale posizione della Santa Sede riguardo alla questione religiosa di Gerusalemme. Tra il luglio 2000 e il gennaio 2001, durante le trattative di pace, fu previsto di dividere Gerusalemme tra israeliani e palestinesi. Questi ultimi avrebbero controllato i Luoghi Santi islamici e quelli cristiani, con l’eccezione del quartiere armeno che sarebbe rimasto in mano a Israele. Di fronte al totale disinteresse dei negoziatori per i diritti e i tradizionali privilegi goduti dai cristiani a Gerusalemme, il pontefice cercò di far sentire la propria voce, ma la sua consueta richiesta di specifiche garanzie internazionali fu recisamente respinta da Yasser Arafat e da Ehud Barak e ritenuta poco praticabile dai consiglieri giuridici del presidente Bill Clinton.
Tuttavia a Taba, nel gennaio 2001, gli israeliani presentarono l’interessante proposta di un Holy Basin per Gerusalemme.
Sì, un’area da sottoporre ad un regime internazionale o a una sovranità congiunta israelo-palestinese. Tale «bacino sacro» avrebbe dovuto includere la città vecchia, l’area archeologica a sud-ovest della spianata, l’Ophel, la valle del Cedron, il monte degli Ulivi con il suo cimitero sacro, il monte Sion e la cittadella di David. Questo piano era eccellente sotto molti aspetti, non ultimo perché includeva diversi importanti santuari cristiani situati fuori le mura della città, della cui salvaguardia le precedenti proposte di pace non si erano mai interessate. L’assoluta impossibilità di dirimere le questioni relative ai Luoghi Santi cristiani e musulmani ha indotto infine i negoziatori a formulare proposte non dissimili da quelle che la Santa Sede, con le sue richieste di internazionalizzazione o di uno statuto speciale, auspica da decenni.