Per secoli, le feste di islam, cristianesimo ed ebraismo sono state vissute spesso in contrapposizione le une con le altre. È inevitabile che ciascuno si riconosca in quanto gli è proprio e non sono certo auspicabili forme di sincretismo effimere e fuorvianti. Ma ciò non significa che si debba rinunciare a cogliere quanto di universalmente valido, e quindi di condivisibile, sta al cuore delle altrui celebrazioni.
La Pasqua cristiana, rispetto a quella ebraica, fa memoria della realizzazione in Gesù delle attese del popolo d’Israele, cominciate con la sua liberazione dalla schiavitù e l’esodo verso la Terra Santa. Nel Corano Mosè è il più citato e ne viene particolarmente ricordata ed esaltata la funzione di guida che condusse la sua gente dalla condizione servile alla libertà. La crocifissione di Gesù viene invece negata dal testo sacro dei musulmani, che in lui vedono soltanto un grande profeta e non il Figlio di Dio. La sua messa a morte da parte dei suoi persecutori apparirebbe uno scandalo inaccettabile, poiché Iddio interviene sempre con successo in difesa dei suoi messaggeri. Eppure, risalendo alla radice ebraica comune e riflettendo sul paradigma dell’esodo, non manca nella tradizione islamica un evento che alla Pasqua può essere felicemente accostato. Si tratta dell’Egira, la migrazione da Mecca a Medina compiuta da Maometto e dai suoi seguaci nel 622 d.C. Non una «fuga», come ancora tanto spesso si dice, destando stupore e sconcerto nei musulmani che vedono così dipinto il loro Profeta come un codardo che avrebbe lasciato la città d’origine per timore dei propri avversari.
Si trattò invece proprio di un esodo che condusse i fedeli a uscire dalla loro terra, recidendo i rapporti che li legavano ai pagani della Mecca, per condurli in un’altra città nella quale nacque la Umma, la nuova comunità cui erano chiamati ad aderire nel quadro di quella che fu, anche, dal punto di vista sociale, una vera e propria rivoluzione. Non a caso è proprio nel 622 che è stato fissato l’anno zero del calendario islamico. Le circostanze e i princìpi sono dunque diversi, ma al fondo troviamo il medesimo anelito che muove ogni comunità religiosa: abbandonare riti e stili di vita menzogneri per imboccare un itinerario di liberazione.
Che in questo percorso vi siano momenti di prova è un altro elemento comune alle tre tradizioni. Ogni epoca conosce i propri e la Terra Santa, da molti anni a questa parte, non deve certo sforzarsi per trovare elementi che riattualizzino la drammaticità della sequela lungo i misteriosi tracciati della Provvidenza. La fatica e i dolori condivisi hanno persino portato al di là di quanto i dogmi permetterebbero, come quando autori palestinesi – e più in generale arabi – pur essendo musulmani hanno ripreso nelle loro opere le immagini della Passione e finanche della crocifissione come simbolo della tragedia del loro popolo.
Più raro è trovare casi simili con figure proprie della tradizione ebraica, a testimonianza di quanto ancora sia difficile ricostruire una memoria condivisa. Sforzo che dovrebbe vedere in prima linea i credenti di ogni fede, a dispetto e persino grazie alle reciproche apparenti estraneità, come quel Simone di Cirene, ignaro e involontario compagno della Via Crucis, lungo la quale non incontriamo invece i discepoli di Gesù, ancora paralizzati dalla paura, prima che lo Spirito li guidasse a comprendere, e quindi a condividere, l’incontenibile gioia della Risurrezione oltre ogni barriera, partendo dalla terra di Gesù e dal suo popolo per giungere fino agli estremi confini del mondo.