Da Ivrea a Gerusalemme
Durante il mio primo e unico pellegrinaggio in Terra Santa, nel 1990, era stata una Piccola sorella a dire che qui c’era bisogno di volontariato. Poi ce l’aveva ripetuto don Gigi, un prete della mia diocesi di Ivrea. L’idea è rimasta viva in me e quattordici anni più tardi sono tornata: ho rimesso piede in Israele l’8 settembre 2004, un mese dopo essere andata in pensione con 41 anni di lavoro sulle spalle (quando ho cominciato ne avevo 16). Ero pronta a collaborare con i frati della Custodia, ma soprattutto nutrivo la speranza di trascorrere sei mesi a Gerusalemme.
Immaginavo che sarei andata a pulire un santuario, tenere in ordine un giardino, coltivare un orto, oppure stirare e aggiustare abiti e tovaglie. Invece mi vennero chieste tre cose: se ero disposta a lavorare in segreteria, se sapevo scrivere una lettera, se sarei sempre stata di sponibile per qualunque altro lavoro si dimostrasse urgente. Praticamente avrei dovuto fare un lavoro simile al mio precedente impiego negli uffici della curia di Ivrea.
Fino a quel momento la mia conoscenza dei francescani si fermava all’ammirazione per san Francesco e santa Chiara, per la bellezza di Assisi, per l’alto pensiero del Cantico delle creature, per l’idea di libertà che deriva dall’amore a una vita povera. Non avevo mai frequentato un convento francescano. Io amo i benedettini e il loro modo di celebrare la liturgia. Ne conosco qualche monastero, dove mi sono sempre trovata molto bene. E adesso sono molto contenta di aver potuto conoscere i francescani!
Dover convivere con gente diversa non mi spaventava. Ho avuto la grazia di stare sette anni a Nomadelfia (vedi box a lato – ndr), e posso dire di conoscere le gioie e i dolori della vita comunitaria, ma soprattutto di considerare positivamente tutto ciò che mette in relazione le persone. Anche Nomadelfia l’avevo incontrata quasi per caso, dopo una lunga ricerca interiore che mi ha accompagnato dai 16 ai 20 anni.
Ci ho vissuto sette anni di gioie e dolori che fanno parte di me, mi costituiscono al punto che mi ritrovo in una poesia di Tagore: «Io sarei morto se le tua gioia fosse scomparsa; e i fiumi avrebbero perduto il loro corso»… Anche qui, quando mi prende un po’ troppo la nostalgia, penso che i panorami della Galilea sono simili a quelli di Nomadelfia. Ancor oggi, a trent’anni di distanza, ho buoni rapporti con la comunità e ci vado sempre molto volentieri e sempre ben accolta da tutti: è la mia casa, la mia famiglia.
Ora, qui in Terra Santa, mi sento come se fossi andata a trovare un amico nella sua casa. È come quando il solo stare con lui, nella sua stanza, ti fa capire tante cose della sua persona, alle quali prima non avevi mai pensato. Anche la Chiesa di Gerusalemme è cosa mia, mi riguarda e mi interessa tanto quanto la situazione di questo Paese, di questi Paesi.
Amo questa città, così bella e straziata, così divisa e così unica, dove ognuno deve fare i conti con se stesso; e dove si viene, in ogni occasione, messi di fronte alle proprie contraddizioni, ai propri limiti, e anche alle proprie immense possibilità.