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Rompere la ragnatela

Emiliano Bos
2 marzo 2007
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Rompere la ragnatela
Uno degli accessi al Souk al-Hamidiyeh, nel centro storico di Damasco. (foto G. Caffulli)

Paese in evoluzione oppure feudo di un potere inattaccabile? Quale volto ha oggi la Siria? L'abbiamo chiesto ad alcuni dissidenti politici che hanno pagato duramente la loro lotta al regime.


Da prigioniero politico a prigioniero virtuale: «Viaggio in Internet ma non ho un passaporto. Non posso lasciare il Paese». Non rinuncia però alla politica: «Per promuovere la democrazia nella nostra regione c’è solo un modo: il rispetto del diritto internazionale, che significa la restituzione del Golan alla Siria. Questo basterebbe anche per favorire un cambio istituzionale nel nostro Paese». Il dottor Yassin al-Haj Saleh, originario di Aleppo, parla con voce pacata. È stato in carcere come detenuto politico dal 1980 al ’96 per la militanza in un movimento d’opposizione. «Venni imprigionato a 19 anni perché facevo attività politica nell’allora Partito comunista – dice Yassin, 45 anni, capelli brizzolati e occhi profondi -. A scanso di equivoci devo precisare che il nostro gruppo non aveva un’agenda “comunista” ma chiedevamo riforme democratiche al regime di Hafez al-Assad», padre dell’attuale presidente della Siria, al potere dal 1970 al 2000.

Seduto sul divano di un appartamento di recente costruzione nel quartiere Dahiwat Qudsina – in un groviglio di palazzine nuove alla periferia di Damasco, in direzione del confine con il Libano – ricostruisce il film in bianco e nero di tre lustri dietro le sbarre. «Dopo aver scontato la condanna a 15 anni mi trattennero altri 12 mesi. Non collaboravo». Aveva già trascorso 11 anni nella prigione di Aleppo e altri 4 ad Adra. Per il periodo aggiuntivo di reclusione lo trasferirono a Tadmor, dove accanto alle splendide rovine romane dell’antica Palmira sorgeva il carcere più temuto dai detenuti politici. Ancora oggi – bastano tre ore di autobus da Damasco – si possono vedere le incredibili vestigia di un passato millenario: un lungo colonnato, templi e tombe a ipogeo, che il tramonto accende di riflessi ocra e rosa. Ma si stagliano anche le ombre di un tragico presente: tombe più moderne, come il penitenziario per i prigionieri politici in funzione fino all’inizio del terzo millennio. Nel 1980 il presidente al-Assad vi fece uccidere oltre 400 oppositori islamici. «La tortura era sistematica e praticata senza un’apparente ragione», scandisce lento il dottor al-Haj Saleh. «Di solito la tortura dura solo pochi giorni, il tempo di estorcere informazioni ai nuovi detenuti». Nell’inferno di Palmira era prassi quotidiana.

Al momento dell’arresto Yassin frequentava il secondo anno di medicina. Scarcerato nel 1996, decise di tornare all’Università e proseguire gli studi. «Chiesi una sorta di “giustificazione” per un’assenza di 16 anni indipendente dalla mia volontà – dice accennando un sorriso sarcastico -. La ottenni». Tre anni dopo, la laurea in medicina e chirurgia, «anche se non ho più praticato questa attività». Era il 2000. Il suo sguardo si incupisce. «Avrei voluto andare dal presidente al-Assad per dirgli: guarda, ecco il mio diploma di laurea. Il carcere non mi ha fermato. Ma era ormai troppo tardi». Il Leone della Siria (Hafez significa proprio leone) era morto qualche settimana prima. «Speriamo che gli Usa la smettano di parlare di democrazia e di nuovo Medio Oriente. Noi lo facemmo trent’anni fa, senza aspettare George Bush», argomenta.

Soprattutto dopo la guerra in Libano tra Israele ed Hezbollah dell’agosto scorso, «serve una riconciliazione tra noi e l’Occidente» insiste, aggiungendo che in Siria i dissidenti cercano da tempo «una terza via, alternativa alla democrazia made in Usa e al regime». Ora Yassin traduce libri in arabo e collabora con il quotidiano libanese al-Nahar e con alcune testate straniere. Durante i primi 13 anni di carcere «come molti altri detenuti politici, ho imparato l’inglese. Era un modo per sopravvivere. Potevamo avere libri e vocabolari. I Fratelli musulmani nemmeno quello, erano trattati peggio». Insieme a comunisti, riformisti e nasseriani, i movimenti islamici sono da decenni al centro della repressione del governo siriano, che impone la laicità dello Stato temendo le derive fondamentaliste. «Ogni 6-7 settimane – racconta ancora al-Haj Saleh – ricevo una visita di un agente del Mukhabarat», i servizi di sicurezza, che in Siria sono organizzati in 14 agenzie. «Gli dico comunque quello che penso; non ho paura a esporre le mie critiche». Che intanto circolano via Internet. Senza bisogno del passaporto.

Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, nel 2005 circa 500 detenuti sono stati rilasciati in due amnistie, tra loro molti curdi. Altri 120 erano stati liberati l’anno precedente. Ma un numero imprecisato di dissidenti è ancora in carcere. Lo scrittore e attivista per i diritti umani Michel Kilo – in prima fila per chiedere riforme democratiche – ha trascorso diverso tempo nelle patrie galere: arrestato a marzo 2006, è stato rilasciato dopo sette mesi. Ad agosto dell’anno scorso le autorità hanno ampliato l’elenco degli attivisti con divieto di espatrio. Tra loro, Walid al-Bunni, promotore della Primavera di Damasco del 2000, scarcerato pochi mesi prima dopo quasi 5 anni di carcere, e Suheir Atassi, animatrice del Forum Atassi, l’organizzazione pro-riforme chiusa di recente dalle autorità. Da 43 anni la Siria vive in stato di emergenza, introdotto dopo il golpe del partito Baath nel 1963. «Dobbiamo ammettere che da migliaia di detenuti politici siamo passati ora ad averne solo alcune centinaia», dice il dottor Hazem al Azmeh, pneumologo, uno dei 99 intellettuali che sottoscrisse il documento della Primavera di Damasco per chiedere più democrazia al nuovo presidente Bassar al-Assad.

«Siamo governati da una “dinastia”: non trovo definizione più appropriata. Non è un partito, né un sistema e nemmeno soltanto una famiglia», dice senza giri di parole Omar Amiralay, 62 anni, regista di film censurati in patria ma premiati all’estero. «Assad padre ha avuto la genialità di costruire il suo potere sulla paura di Israele e su una perfetta ragnatela che permette di distribuire e controllare i poteri nell’apparato».

Gli Assad sono esponenti della minoranza alauita delle montagne del nord-ovest, intorno a Lattakia. Secondo alcune stime, pur rappresentando il 10-11 per cento dei 18 milioni di siriani, occupano posti di comando in 9 casi su 10. «Bisogna ammettere che negli ultimi anni è aumenta la libertà di espressione. Ma non c’è stata quell’apertura che chiedevamo», dice Amiralay, che ha studiato all’Institut des Hautes Etudes Cinématographiques di Parigi. «Ogni tanto qualche intellettuale viene arrestato.  È la spia che il governo non sa sopportare le poche voci critiche interne», osserva il regista. «Oggi ci sono alcuni ingranaggi del regime che sfuggono al controllo del giovane Assad: si stanno sgretolando i pilastri della dinastia, cioè i capi dei servizi di sicurezza», sostiene Amiralay.

Sotto quegli stessi servizi di sicurezza detenuti politici come Imad Shiha o Riad al-Turk hanno trascorso in carcere quasi tre decenni. Il primo è stato rilasciato nel 2004 dopo 29 anni dietro le sbarre. Una prigionia più lunga di Nelson Mandela in Sudafrica. Riad al-Turk, 73 anni, ex-primo segretario del Partito comunista, venne arrestato la prima volta nel 1952, aveva 22 anni. Poi di nuovo nel 1960, per l’opposizione all’unità tra la Siria e l’Egitto di Gamal Nasser, durata solo tre anni. E ancora, nel 1980. Tortura e 18 anni di isolamento totale. Scarcerato nel 1998 e arrestato di nuovo nel 2001, a 71 anni, dove trascorse ancora 15 mesi in cella.

Al deficit di democrazia interno, si aggiunge «un crescente isolamento a livello internazionale, dovuto anche a cause esterne», spiega Marwal al-Kabalan, 35 anni, docente di Relazioni internazionali all’Università al-Mezzeh di Damasco e ricercatore del Centro studi strategici. Ricorda che il suo Paese è oggetto del Syrian accountability Act, l’embargo politico introdotto dagli Usa nel 2003 contro Damasco. Elenca, tra gli altri motivi di quarantena politica della Siria, le accuse internazionali per l’omicidio del premier libanese Rafik Hariri nel febbraio 2005. E la quasi trentennale occupazione del Libano fino all’anno scorso. Ancora: l’appoggio a Hezbollah da parte di Damasco, anche nel recente conflitto con Israele. Nel cuore della capitale i ritratti del capo di Hezbollah, Hassran Nasrallah, sono appesi ovunque in bella vista. Non era mai successo prima che fosse permessa un’altra immagine (oltre a quella imperante degli Assad padre e figlio).

La realtà della Siria è però in continua evoluzione, e per questa ragione ogni rappresentazione rischia di essere parziale. Il Paese ha oggi mille volti: quello velato con l’hijab color pastello delle adolescenti dentro la gigantesca Moschea degli Ommayyadi. Quello coperto dal velo nero delle donne sciite. E quello aperto e sorridente di Mai al-Atrash, 21 anni, studentessa di giurisprudenza. Il bisnonno Sultan al-Atrash guidò la protesta dei drusi nel 1925 contro gli occupanti francesi e Parigi rispose bombardando la capitale.  «Qualche volta – dice decisa – noi che abbiamo più consapevolezza dovremmo chiederci perché le cose vadano in questo modo in Siria». Sospira. «Ma troppi tra noi non si pongono queste domande».

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