Non c'è tema che in Medio Oriente divida di più della questione dei profughi palestinesi. Da parte israeliana ogni accenno a questo argomento è visto come una minaccia all'esistenza stessa dello Stato ebraico. Da parte araba, all'opposto, si continua ad alimentare il mito delle chiavi di casa, ancora custodite nei campi profughi dalle famiglie sfollate nel 1948 con la costituzione dello Stato di Israele. Il risultato è che la questione dei profughi rimane il grande argomento tabù di ogni negoziato politico sul conflitto israelo-palestinese. Un articolo del quotidiano libanese The Daily Star lancia un sasso nello stagno.
Non c’è tema che in Medio Oriente divida di più della questione dei profughi palestinesi.
Da parte israeliana ogni accenno a questo argomento è visto come una minaccia all’esistenza stessa dello Stato ebraico: se tornano i profughi che lasciarono il Paese nel 1948 (e soprattutto le centinaia di migliaia di loro discendenti) noi diventeremo minoranza e a quel punto Israele scomparirà.
Da parte araba, all’opposto, si continua ad alimentare il mito delle chiavi di casa, sessant’anni dopo ancora custodite nei campi profughi: chiavi di edifici che ormai non esistono più e dunque non potranno aprire proprio niente. Il risultato è che la questione dei profughi rimane il grande argomento tabù di ogni negoziato politico sul conflitto israelo-palestinese.
Rami G. Khouri ha avuto il merito, in questi giorni, di lanciare un sasso nello stagno su questo tema dalle colonne del quotidiano libanese The Daily Star. Prendendo spunto dalle recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni secondo cui il ritorno dei profughi è il vero motivo per cui Israele non può accettare il Piano di pace adottato nel 2002 dalla Lega Araba, Khouri prova a rilanciare. Sostenendo che la Livni ha messo le carte sul tavolo. E ora la Lega Araba, che terrà il suo vertice a fine mese a Ryad, farebbe bene a tenerne conto. Perché prima o poi bisognerà trovare anche su questo terreno un punto di incontro possibile. Che non può però significare – spiega il giornalista – cancellare tout court la questione dei profughi dall’agenda, come Israele vorrebbe.
Quale strada, allora? Khouri suggerisce una distinzione tra l’analisi storica e la concreta attuazione del ritorno dei profughi. «Un elemento decisivo per i palestinesi e per gli arabi – spiega – sarebbe il riconoscimento israeliano di come la nascita dello Stato di Israele si sia basata sull’espulsione, l’esilio e la privazione di beni dei palestinesi. L’accettazione da parte di Israele delle risoluzioni dell’Onu su questo argomento sarebbe un passo importante, che potrebbe aprire la strada a un accordo negoziato in cui si affermi il diritto dei profughi al ritorno, li si compensi per le loro perdite, si dia loro pieni diritti nello Stato palestinese, garantendo allo stesso tempo la natura ebraica dello Stato di Israele e arrivando così al suo riconoscimento da parte degli Stati vicini». I profughi non tornano, ma si riconosce in linea teorica il loro diritto e li si compensa economicamente. Una strada realistica. Ma con prezzi ben precisi da pagare da una parte e dall’altra: per Israele un modo di guardare alla propria storia, per i palestinesi il passaggio dal mondo dei sogni alla realtà.
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