Non tutti gli ebrei del mondo sostengono Israele allo stesso modo. Anche all'interno della grande comunità ebraica statunitense ci sono approcci diversi. Ne parla Samuel Freedman nella sua rubrica sul quotidiano The Jerusalem Post.
Come si fa a difendere davvero Israele? È una domanda che non ci si pone solo a Gerusalemme. Anzi, a volte sono proprio le risposte che si danno a migliaia di chilometri di distanza ad avere gli effetti più dirompenti su questo conflitto.
È la riflessione proposta in questi giorni sul Jerusalem Post da Samuel Freedman, nella rubrica In the Diaspora che questo docente di giornalismo della Columbia University tiene da New York.
In un articolo intitolato «Come non vendere Israele agli ebrei americani», Freedman pone il problema del tipo di Paese che ha in mente l’ebreo americano che sostiene Israele.
Prendendo spunto da due scene diverse svoltesi contemporaneamente a pochi isolati di distanza: i suoni e i sapori israeliani in un festival di Manhattan e la vendita promossa nella sinagoga del sobborgo di Teaneck da Amana, l’immobiliare dei coloni.
«Il dibattito sull’hasbara, cioè sul modo migliore per sostenere Israele, in fondo è tutto qui» sostiene Freedman.
«Posso capire, pur non essendo d’accordo con loro, la sfida di quegli ebrei americani che credono a tal punto nell’ideale del Grande Israele da scegliere di andare loro stessi a vivere nei Territori occupati», osserva il giornalista. Ma non è questo il caso dell’iniziativa di Teaneck: perché a essere vendute da Amana erano case della Cisgiordania che sarebbero poi state affittate a famiglie di coloni già presenti in loco. Case di insediamenti che, in almeno sette casi, si trovano oltre il muro/barriera di sicurezza e dunque resteranno da quella che dovrebbe essere la parte palestinese nell’ipotetico accordo finale.
«Quanto è facile giocare a fare i massimalisti, invocare la promessa divina come una giustificazione per la colonizzazione, dal proprio tetto sicuro di Teaneck – commenta Freedman -. Mi chiedo quanti degli avveduti proprietari terrieri degli insediamenti, sarebbero disposti a perdere un figlio sulla linea del fronte di una guerra israeliana, come è successo l’estate scorsa al romanziere pacifista David Grossmann. È molto più sicuro limitarsi a prenotare un tavolo all’annuale cena di gala dell’Hebron’s Fund in un hotel di Manhattan».
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