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Discriminati all’aeroporto

02/02/2007  |  Milano
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Discriminati all’aeroporto
La grande piazza coperta dell'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv (Israele).

Viaggiare in aereo dopo l'11 settembre 2001 è un po' per tutti un'esperienza stressante. Ovunque nel mondo i controlli di sicurezza si sono fatti più stringenti e talvolta costringono a lunghe code e all'esercizio di molta pazienza. Israele fa eccezione, nel senso che nel suo aeroporto internazionale le procedure erano rigide anche prima del 2001. Tutti sono convinti che la sicurezza collettiva sia un'esigenza indiscutibile e primaria, ma bruciano le disparità di trattamento. Qualche organismo israeliano per la tutela dei diritti umani denuncia: un cittadino con passaporto israeliano ma di etnia araba viene sottoposto a verifiche più meticolose di uno di origini ebraiche.


(e.s.) – Salah Ya`aqubi è uno studente modello dell’Università di Tel Aviv. Nel 2005, assieme ad altri tre compagni è stato scelto per partecipare ad una conferenza internazionale a Londra. Ma per Ya`aqubi partire da Israele non è stato facile. Prima di imbarcarsi all’aeroporto internazionale Ben Gurion ha dovuto subire controlli pressanti e discriminatori. Tanto che poi ha raccontato: «È stata l’esperienza più offensiva e umiliante che io abbia mai avuto». Come lui moltissimi altri passeggeri di origine araba hanno ricevuto un «trattamento speciale» da parte degli agenti di sicurezza israeliani. Lo testimonia un corposo rapporto diffuso a dicembre dall’Arab Association for Human Rights, un’organizzazione non governativa fondata nel 1998 e con sede a Nazareth.

Salah Ya`aqubi ha passaporto israeliano come gli altri tre studenti che hanno viaggiato con lui. A differenza loro, però, vive a Reineh, vicino a Nazareth ed è arabo. È l’unica ragione per cui sarebbe stato sottoposto a procedure diverse. Dopo i controlli dei bagagli ai raggi x effettuati per tutti i passeggeri, Ya`aqubi è stato costretto a un’ulteriore ispezione di sicurezza in una stanza appartata. Prima hanno perquisito la sua borsa, aperta e rovistata, e poi lo hanno interrogato con una serie di domande precise su luogo di destinazione, motivo del viaggio e così via. Al termine del colloquio ne è seguito un altro con un diverso agente. Stesse domande e nessuna spiegazione o sospetto motivato. «Non mi interessa che cosa le hanno chiesto precedentemente», ha detto la guardia ribattendo alle proteste di Salah Ya`aqubi.

Al ritorno è andata anche peggio: il bagaglio dello studente arabo è stato aperto e controllato perché le guardie israeliane «sospettavano la presenza di molecole di esplosivi». Per lo stesso motivo Ya`aqubi ha dovuto togliersi scarpe e vestiti per una perquisizione corporale e rassegnarsi al fatto che un suo borsone gli sarebbe stato spedito a casa solo di lì a qualche giorno, dopo controlli accurati. Alla fine gli agenti gli hanno permesso di andare, ma nella zona duty free, dove aveva raggiunto i compagni, una guardia l’ha nuovamente avvicinato per portarlo in una stanza appartata per un nuovo controllo. Il giovane è stato autorizzato a salire sull’aereo solo dopo 15 minuti dall’imbarco degli altri passeggeri, imbarazzato e con gli occhi di tutti addosso. I tre studenti ebrei, che erano con lui, invece, non hanno ricevuto nessuna ispezione aggiuntiva rispetto a quelle standard.

«Sono stato subito sospettato solo perché sono arabo – ha concluso Salah Ya`aqubi riportando la sua esperienza all’Arab Association for Human Rights – il fatto che io sia uno studente promettente, che viaggiava in qualità di rappresentante di una istituzione accademica e che fossi stato scelto per rappresentare Israele a una conferenza internazionale, non è servito a nulla. Ho sentito l’assenza di stima e di rispetto, e il disprezzo che le guardie di sicurezza nutrivano nei miei confronti».

La testimonianza di Ya`aqubi e degli altri passeggeri arabi, che si sono rivolti all’associazione per la difesa dei diritti umani, dimostrano che i controlli discriminatori sono strutturati in diverse fasi: cominciano all’entrata dell’aeroporto di Tel Aviv e terminano all’imbarco sull’aereo.

Mentre si è ancora in automobile per raggiungere lo scalo Ben Gurion si incontra un posto di blocco. «Una guardia ci ha chiesto di identificarci e di dire la nostra provenienza. Quando io ho risposto "dalla zona di Nazarteh", l’agente ci ha ordinato di accostare e di spegnere il motore – spiega un viaggiatore arabo -. Vado all’estero frequentemente e tutte le volte che arrivo all’entrata e dico che sono di Nazareth, mi fermano e mi interrogano». Da qui inizia un lungo iter di controlli.

Il passo successivo è l’ingresso al terminal dove le guardie di sicurezza ispezionano i passeggeri «sospetti». Al check-in la discriminazione è ancora più evidente: i timbri e gli adesivi posti sul passaporto e sui bagagli hanno colori diversi tra arabi ed ebrei. Fatta «la selezione», gli agenti portano i passeggeri arabi in una stanza appartata dove vengono sottoposti ad un colloquio con domande dettagliate sul viaggio, sulla propria famiglia, sul lavoro, sulle persone che si intendono incontrare.

L’interrogatorio si ripete identico con un’altra guardia, mentre i bagagli vengono aperti e controllati. A volte viene ispezionato il contenuto dei computer portatili e degli altri strumenti elettronici, violando apertamente il diritto alla privacy. Si passa poi alla perquisizione corporale. Ad alcuni passeggeri è chiesto di togliersi scarpe e vestiti. Per il timbro sul passaporto invece ci sono code diverse (arabi da un parte, ebrei dall’altra) e trattamenti diversi prima di poter raggiungere l’area duty free. Ma anche qui si può sempre essere raggiunti da un agente per ulteriori ispezioni prima dell’imbarco.

Secondo il rapporto elaborato dall’associazione di Nazareth, non riguarderebbero solo l’aeroporto Ben Gurion ma anche gli scali esteri se ci si imbarca su voli – come quelli della compagnia El Al – i cui controlli di sicurezza sono svolti da personale israeliano.

Le conclusioni tratte dall’Arab Association for Human Rights sono chiare: gli arabi subiscono ispezioni pressanti solo perché arabi. Non serve un sospetto, un motivo comprovato. Bastano la razza, la lingua parlata, la località d’origine per dare il via ad una serie di interrogatori. «I dati raccolti  – si legge ne rapporto – suggeriscono che questo non è un fenomeno insolito e casuale ma invece una politica sistematica applicata contro i passeggeri arabi sulla base della loro nazionalità d’origine».

L’Arab Association for Human Rights non è l’unica a preoccuparsi. Anche organizzazioni umanitarie composte da ebrei mostrano attenzione. Recentemente Machsom Watch, un gruppo di donne ebree che dal 2001 presidia i posti di blocco dei militari israeliani ai varchi con i Territori palestinesi, ha chiesto di poter accedere allo scalo di Tel Aviv per assistere alle ispezioni e tutelare i diritti dei viaggiatori.

Le quasi 400 volontarie, tutte israeliane, ogni giorno vigilano sui controlli ai quali sono sottoposti i palestinesi prima di entrare via terra nello Stato ebraico. Ora vogliono fare lo stesso durante le perquisizioni al Ben Gurion. Per questo in l’8 gennaio scorso hanno presentato una formale richiesta al ministro dei Trasporti, Shaul Mofaz, e al capo dell’Airport Authority, Gaby Ofir. Se otterranno il via libera per questa nuova area di impegno, potranno avvalersi del sostegno del New Israel Fund, un’organismo internazionale – ne fanno parte statunitensi, canadesi, israeliani ed europei – fondato nel 1979 per promuovere i diritti civili e l’uguaglianza sociale dei cittadini israeliani.

«La nostra presenza potrebbe evitare una buona dose di sofferenza ai passeggeri – ha dichiarato alla stampa una delle leader di Machsom Watch -. Non ci opponiamo al principio dei controlli di sicurezza, ma al modo in cui sono condotti».

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