Nella Striscia di Gaza gli adulti sono poco più di un terzo della popolazione. Gli altri sono giovani, ragazzi e bambini. Come vivono, cosa pensano e quali sono le loro aspettative? Con quali sentimenti crescono, nei confronti degli israeliani, le nuove generazioni? Ce lo raccontano il responsabile di una ong palestinese e un medico a capo di un centro di salute mentale.
(d.c.) – Normalmente, quando si vuole gettare uno sguardo sul futuro di una nazione qualsiasi nel mondo, l’operazione da cui non si può prescindere è l’osservazione delle condizioni di vita dei più giovani.
Nella Striscia di Gaza, dove la popolazione adulta rappresenta poco più di un terzo del totale (560 mila abitanti su 1,4 milioni), chiedersi come vivano, cosa pensino e quali siano le aspettative dei ragazzi e dei bambini equivale anche a farsi un’idea piuttosto chiara di quali possano essere, nel giro di pochi anni, i rapporti tra palestinesi e israeliani.
Bassam Nasser, trentasettenne direttore del Centro palestinese per la democrazia e la risoluzione del conflitto, è un uomo di pace che sa che il desiderio stesso di concordia nella sua terra rischia di essere estirpato dai cuori delle ultime generazioni insieme alla speranza di una vita normale. «La mia generazione – dice Nasser – conosce gli israeliani perché eravamo abituati a lavorare in Israele; è per questo che noi siamo pronti a fare la pace: noi sappiamo che gli israeliani sono esseri umani. I giovani invece non vedono mai gli israeliani come esseri umani, perché vedono solo soldati, sui carri armati e sugli elicotteri. Sono circondati da violenza, povertà, i loro diritti sono continuamente calpestati. Mettete tutto ciò in una grande scatola e agitate il contenuto, e immaginate quale razza di nuova generazione stia crescendo qui».
Nei centri ospedalieri, sempre più specializzati nell’affrontare le ferite psicologiche di una popolazione stremata dalle bombe e dalle diverse forme di embargo del governo israeliano, c’è poco spazio per l’immaginazione.
«I sintomi dei ragazzi sono ansia, paura, comportamento ribelle; hanno bisogno di sentirsi protetti, e le loro famiglie non possono farlo. Per un bambino questo è terribile». Sono parole di Sami Owaida, medico e capo di uno dei centri di salute mentale a Gaza, abituato a conferire anche con i colleghi israeliani, con i quali condivide la preoccupazione per l’emergere di una generazione totalmente imbevuta dall’odio verso i vicini; uno che non può dire ai suoi giovani pazienti che non tutti gli israeliani sono dei mostri senza essere apostrofato come traditore.
È raro veder brillare i volti dei ragazzini di Gaza. Succede quando sentono il rumore di un proiettile lanciato verso Israele, o quando, in una versione grottesca e drammatica di «guardie e ladri», giocano alla guerra contro gli ebrei scagliandosi pietre a vicenda. Del resto si sa che i bambini si divertono con poco.