Per quarant'anni Stanislaw Dziwisz è stato l'ombra di Karol Wojtyla. Nelle pagine di Una vita con Karol, uscito in libreria in questi giorni, ci rende partecipi più da vicino dell'avventura umana e spirituale che ha vissuto accanto a un credente saldo come Giovanni Paolo II. Il Papa, ci spiega l'attuale arcivescovo di Cracovia, ancorava la sua quotidiana esperienza di sequela alla roccia di una preghiera incessante.
(g.s.) – Fa capolino sul proscenio nelle prime pagine del libro per poi ritirarsi dietro le quinte contentandosi del ruolo di voce narrante e lasciando la luce dei riflettori al vero protagonista dell’opera: Karol Wojtyla. Di don Stanislaw, che gli è stato accanto quarant’anni come segretario personale, scopriamo che è il quinto di sette figli, rimasti ben presto orfani di padre. Bastano pochissime altre note personali, perché dai 27 anni in poi la sua biografia coincide con quella di Papa Giovanni Paolo II. Lui stesso reso partecipe d’un’avventura umana e spirituale da togliere il respiro.
Una vita con Karol è un arazzo intessuto di gratitudine e ammirazione. È l’omaggio di un figlio, non il verbale d’un notaio o il resoconto d’un cronista.
Nella sua conversazione con il vaticanista Gian Franco Svidercoschi – coautore del volume -, Dziwisz offre con garbo qualche squarcio sul Wojtyla privato. Ma il lettore non si aspetti grandi sorprese. In fondo, già mentre era in vita, il Papa polacco aveva schiuso la sua esistenza ai media, con un intento pastorale che metteva in conto anche il rischio di inflazionare l’immagine del Pontefice.
Ci piace qui riproporvi alcuni passaggi della narrazione.
Nel capitolo 33, sulle Radici ebraiche, don Stanislaw, ora cardinale arcivescovo di Cracovia sulla cattedra che fu di Wojtyla, ricorda un momento del pellegrinaggio in Terra Santa, nel 2000: la visita al Museo dell’Olocausto (lo Yad Vashem), a Gerusalemme. Scrive:
«Quando entrammo nel mausoleo di Yad Vashem, compresi dalla commozione sul volto del Santo Padre perché avesse voluto assolutamente compiere quella visita. E credo che quella commozione fosse solo una piccolissima parte dei sentimenti che provava dentro. E che condivideva con i suoi amici ebrei, lì accanto. Forse, dico forse, perché lo immagino soltanto, forse il Santo Padre, sentendo arrivare la fine, pensava di non aver fatto abbastanza per onorare le vittime della Shoà, per condannare tutto ciò (uomini e ideologia) che aveva originato quella tragedia. E perciò aveva aspettato con ansia di entrare nel Memoriale per recitare una preghiera in ricordo dei sei milioni di poveri ebrei uccisi solo perché ebrei. E, in quei sei milioni, una cifra raccapricciante, quasi un milione e mezzo di bambini. E lì, con addosso tutto quel peso terribile, la cosa sicuramente più giusta da fare, come fece il Santo Padre, era di ridurre al minimo le parole e lasciar invece "parlare" il silenzio. Il silenzio del cuore. Il silenzio della memoria. A quel punto, come se avesse voluto sostenerlo, e dirgli che avevano capito benissimo ciò che lui provava, il premier israeliano Ehud Barak si avvicinò al Papa: "Lei non poteva dire di più di quello che ha detto!"».
Il capitolo successivo si intitola «Uccidere in nome di Dio?». Vi leggiamo:
«Una preoccupazione tornava sempre più di frequente nelle riflessioni del Santo Padre con i suoi più stretti collaboratori. Bisognava fare tutto ciò che fosse nelle possibilità della Santa Sede per impedire che esplodessero guerre nel Vicino Oriente, e soprattutto che queste guerre avessero anche solo la parvenza di uno scontro tra religioni. La fede in Dio non poteva assolutamente condurre alla soluzione dei problemi mediante un conflitto armato. Sarebbe stata una bestemmia pensare il contrario! Ed ecco perché – diffondendo lo spirito di Assisi – era necessario fare di tutto per approfondire il dialogo tra le religioni monoteistiche ma anche con le altre religioni».