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«Il Papa in Terra Santa quando ci sarà un clima di pace»

24/01/2007  |  Roma
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«Il Papa in Terra Santa quando ci sarà un clima di pace»
Aprile 2006. Pochi giorni dopo il suo ingresso a Gerusalemme come delegato apostolico, mons. Antonio Franco (al centro) partecipa alla Via crucis con i francescani. (foto J. Kraj)

Parla il delegato apostolico a Gerusalemme, monsignor Antonio Franco. L'ambasciatore della Santa Sede ricorda il desiderio di Benedetto XVI: visitare una Terra Santa in condizioni di vita e giustizia sociale più serene delle attuali. «Quando arrivai a Gerusalemme come nunzio nell'aprile 2006 - constata mons. Franco -, c'era un enorme flusso di pellegrini. Poi è venuta la doccia fredda della guerra con il Libano. E non ci siamo ancora ripresi veramente».Abbiamo incontrato il vescovo a Roma, dove ci ha illustrato il suo punto di vista sulla situazione politica in Israele e nei Territori, ma anche sui bisogni più urgenti delle comunità cristiane locali.


«Quando sono arrivato a Gerusalemme, alla vigilia della Settimana santa del 2006, c’era un fervore enorme di visite, iniziative, pellegrini… Questo movimento è andato crescendo fino a luglio. Poi è arrivata la guerra in Libano: una vera e propria doccia fredda per l’economia in Terra Santa, con l’arresto immediato dei pellegrinaggi e tutto quello che questo clima psicologico ha comportato… Un clima dal quale ancora non siamo usciti». A parlare è monsignor Antonio Franco, 69 anni, che dallo scorso aprile è delegato apostolico a Gerusalemme e in Palestina e nunzio presso i governi di Israele e Cipro, dopo sette anni trascorsi a capo della nunziatura di Manila, nelle Filippine.

Il presule è a Roma dove partecipa a una riunione di due giorni convocata due volte all’anno in Vaticano per coordinare gli aiuti alle Chiese del Medio Oriente. Dice: «In Israele le difficoltà materiali della guerra sono state poche, e soprattutto connesse agli sfollati che dalla Galilea si rifugiavano a Gerusalemme e a Betlemme. Ma il clima generale è stato quello di una grande tensione, non ancora assorbita: i pellegrinaggi stentano a riprendere. A Betlemme per Natale si è calcolato che ci fossero meno di un terzo dei pellegrini presenti l’anno scorso. La situazione nei Territori occupati continua ad essere caotica e nello stesso Israele la popolarità del governo non è certo ai livelli migliori… Anche perché la guerra in Libano ha comportato un inasprimento anche nei rapporti con i palestinesi, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza».

Che esito potrebbero avere le eventuali elezioni anticipate palestinesi?
Prima di tutto non mi pare che in questo momento ci sia davvero la volontà di andare alle urne. Il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen ne ha parlato prima di Natale, dopo di che sono continuati questi pour parler negoziali per arrivare a un governo di unità nazionale, ma non mi sembra che ci sia una visione chiara su quali possano essere degli sviluppi. Non sono certo che le elezioni possano aiutare, perché la situazione è talmente incontrollabile, talmente instabile che gli esiti restano imprevedibili.

Cosa chiederà durante la riunione in corso in Vaticano?
Alla Roaco (la Riunione opere aiuto Chiese orientali, un comitato che riunisce tutte insieme le agenzie di vari Paesi del mondo, che s’impegnano al sostegno finanziario – ndr) parlerò della situazione in Terra Santa e dei progetti che la Chiesa cerca di portare avanti sia per la vita interna della Chiesa sia per aiutare i cristiani, che sempre di più cercano di lasciare il Medio Oriente.

Quali sono i bisogni più urgenti?
Ci sono progetti per la costruzione di case per i cristiani. Cerchiamo di aiutare il più possibile perché il problema delle abitazioni è molto sentito: molte coppie di giovani si sposano e non sanno dove andare a sistemarsi. Poi c’è la pastorale giovanile, quella per le famiglie, le scuole, tutti i vari settori dell’attività pastorale, senza trascurare l’attività caritativa: i palestinesi sono senza lavoro e senza stipendi praticamente dallo scorso mese di febbraio e spesso c’è bisogno di aiutarli economicamente perché possano vivere. Un altro progetto molto importante allo studio è la creazione di un centro di informazione cattolica per la Terra Santa, perché manca un punto di riferimento per le agenzie cattoliche: l’Assemblea degli ordinari della Terra Santa ultimamente ha rimesso in moto questo progetto affidando al Custode di Terra Santa, fra Pierbattista Pizzaballa, l’incarico di preparare gli statuti e intanto di continuare a preparare gli ambienti che lui già stava cercando. È un progetto molto importante per la Chiesa in Terra Santa.

Che cosa si sentirebbe di dire per incoraggiare il turismo, invocato da più parti come un volano indispensabile per far ripartire l’economia della regione?
Incoraggio il pellegrinaggio, che è un po’ diverso dal turismo. Il pellegrinaggio ha uno scopo prima di tutto personale per chi lo fa, ma riveste anche il grande valore della presenza. Non è neanche tanto un discorso di mero aiuto economico: è una presenza che fa sentire ai cattolici di Terra Santa che sono parte di una comunità più ampia, che la Chiesa universale è solidale con loro, li sostiene e li invita a rimanere. Rimanere per essere la presenza viva laddove la Chiesa è nata: altrimenti in Terra Santa rimangono solo le pietre, e il pellegrinaggio diventa archeologia religiosa.

Quali sono gli ostacoli ad un eventuale viaggio del Papa?
Nell’immediato le difficoltà sono reali: la visita del Papa richiede una certa atmosfera sia nella comunità cattolica che nella società in cui i cattolici vivono. Quando il Papa ha espresso per la prima volta questo suo desiderio, mentre era in Germania, disse «possibilmente in tempo di pace». Ora, anche ammettendo che «il tempo di pace» sia una meta molto ambita e forse non ancora immediata, quello che certamente si richiede sono delle condizioni umane e sociali un po’ più serene. E certamente più stabili. Se il Papa viene in Terra Santa deve sapere con chi parla e chi incontra perché il Papa viene per tutti, non solo per un gruppo.

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