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Acri, germogli di speranza

Chiara Tamagno
29 gennaio 2007
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Incontro con padre Quirico Calella, direttore del Terra Santa College di Akko (Israele).


Lambita dal Mar Mediterraneo e distesa nell’ampio golfo che all’altra estremità vede il porto di Haifa, Acri sembra quasi sonnecchiare sui resti del suo glorioso passato. Tra le banchine del porto e le vie della città vecchia la vita scorre con calma orientale, al riparo dalla modernità della vicina Haifa e dalle tensioni che si respirano più a sud. Relativamente pochi – e comunque molti discreti – anche i turisti, che qui possono ammirare tracce suggestive del periodo romano, ellenistico, arabo, crociato, turco… Basta guardare le mura che circondano la città vecchia per riconoscere i segni dei popoli che si sono succeduti in questa terra di facile approdo.

L’origine della città risale al tempo dei cananei quando si chiamava Akko, passò quindi sotto il controllo fenicio, divenne territorio dei greci di Alessandro Magno, dei romani e degli arabi che la occuparono nel 636. Ma la sua grande storia è legata al periodo crociato, quando assunse il ruolo di porto principale della Terra Santa: dopo che i crociati persero definitivamente Gerusalemme è qui che stabilirono la capitale del regno latino. Akko prese allora il nome di San Giovanni d’Acri, in onore dell’ordine militare di San Giovanni che, con quello dei Templari, si spartiva il controllo della città.

Passeggiando tra i possenti bastioni a guardia del porto sembra quasi di sentire il fragore delle battaglie, che si scatenarono su queste coste: tra tante, la strage del 1291 con la presa della città da parte del sultano Malek al Ashraf, l’assedio napoleonico e poco più tardi quello egiziano del generalissimo Ibrahim Pascià. Scontri epici che la gente di Acri si tramanda da generazioni, così come addita orgogliosa il punto in cui approdarono Marco Polo, san Francesco e altri celebri personaggi del passato.

Oltrepassate le poderosa mura, costruite dai turchi sui resti di quelle crociate, ci si inoltra tra i caravanserragli. Sono tre: quello delle Colonne, quello dei Franchi e quello delle Clarisse. Spazi ampi, squadrati, delimitate dalle arcate del portico su cui si affacciano i locali che un tempo erano magazzini, botteghe, locande e, ai piani superiori, gli alloggi per i mercanti. I vicini rumori del suq fanno immaginare l’atmosfera concitata che nel Medioevo si viveva in questi quartieri vicini al porto, dove venivano scambiati i prodotti preziosi tra le contrattazioni in più lingue, in un tripudio di profumi, colori, suoni… Oggi l’atmosfera è molto più rarefatta e trovi il ragazzo che offre svogliatamente spremute ai turisti, e si mette in posa sul suo carretto tra le arcate del portico.

All’interno dalla cittadella ci viene incontro padre Quirico Calella, responsabile della comunità francescana di Acri e direttore del Terra Santa College della città. Pugliese di origine, è un vulcano di notizie e di segnalazioni per farci cogliere ogni bellezza e ogni particolare. Con lui ci inoltriamo nella città sotterranea, la città crociata: un dedalo di corridoi che immettono in ampie sale sorrette da maestose colonne. La luce filtra dalle feritoie e illumina dettagli interessanti, come i gigli e altri simboli del regno latino incisi sulle colonne… Regna un silenzio quasi irreale e pare che il tempo qui si sia fermato.

Risuona la voce concitata del frate che spiega con passione: «È uno dei più importanti siti del Paese, un modello di città del XII secolo quasi integro! La conservazione quasi intatta di ogni elemento è stata possibile grazie alla copertura di sabbia riversata dai turchi sulla cittadella cristiana allo scopo di seppellire ogni traccia dei crociati. La scoperta di questo tesoro avvenne quasi per caso nel 2005, quando un abitante della zona soprastante lamentava infiltrazioni nella propria casa. Sono iniziati così gli scavi che hanno già portato alla luce strade, botteghe, la cappella, le sale dei cavalieri e un’amplissima sala da pranzo, oggi utilizzata per convegni o ricevimenti di prestigio. Ma si scava ancora!». Di qui parte il tunnel che collega il quartiere dei Templari con il porto, un tempo utilizzato per fuggire in caso di pericolo e per scortare i pellegrini che giungevano o partivano da Acri.

Altrettanto suggestivo è quel che resta dell’epoca araba, come la moschea e il bagno turco, fatti costruire dal terribile pascià el Jazzar alla fine del XVIII secolo. L’hammam, che oggi ospita l’Acre Municipal Museum, offre un percorso particolarmente coinvolgente: effetti speciali avvolgono il visitatore nell’atmosfera originaria, tra vapori, suoni, profumi… Sorprendente l’ingegnoso sistema di riscaldamento dal pavimento e l’eleganza delle decorazioni sui marmi provenienti da Tiro e Cesarea.

Sbuchiamo alla fine in strada e per viuzze strette tra le case arriviamo al convento francescano, ben segnalato dalla bandiera bianca con la croce rossa di Terra Santa. Padre Quirico ha ancora tanto da raccontare e qui può parlare ancora più liberamente. Come a proposito della questione del «velo», che da qualche anno ha reso il frate piuttosto famoso: fu lui infatti che nel ’98 chiuse la scuola perché una ragazza musulmana si ostinava a presentarsi con il velo, non rispettando le regole della divisa scolastica che non prevede la testa velata. «Il tribunale mi diede ragione, ma poi quante ripercussioni subii… dovetti persino fuggire per qualche tempo in attesa che gli animi da queste parti si calmassero!». Una situazione che fortunatamente si normalizzò nel giro di pochi mesi.

Acri è infatti una città di convivenza pacifica tra gente di culture diverse: circa 43 mila abitanti, di cui 30 mila ebrei, 11 mila e 500 musulmani, mille e cinquecento cristiani. I quali sono una minoranza ma godono di un certo rispetto, impegnati come insegnanti, professionisti, artigiani e commercianti. Assistiti dai frati fin dai tempi di san Francesco, sono stati educati al dialogo fraterno e a testimoniare con la vita i valori del Vangelo. Ci dice padre Quirico: «Nelle varie attività è meglio non toccare il tema religioso, dobbiamo esser cauti per non esser accusati di proselitismo. In occasione della recita di Natale, ad esempio, inseriamo danze arabe per coinvolgere tutti».

Padre Quirico non sta più nella pelle e ci porta a visitare la «sua» scuola: un complesso molto grande, ammodernato negli anni, che oggi accoglie 540 studenti, dalla scuola materna al liceo. I ragazzi hanno lezione, ma lui apre tutte le porte, si mescola con gli allievi, li fa cantare, recitare, dialogare in italiano… In palestra c’è tempo per uno scambio con la palla sotto il canestro; nei laboratori di chimica un occhio al microscopio, in biblioteca un tuffo tra gli scaffali pieni di volumi.

L’Ufficio della presidenza è il suo laboratorio di idee. Sul computer girano le foto delle gite scolastiche, sugli scaffali troneggiano le coppe dei tornei sportivi e sulla scrivania non si contano le cartelline dei progetti: «Sto organizzando un concerto insieme a un gruppo italiano che verrà da noi; intanto penso a scambi culturali con le scuole israeliane, alle attività per l’estate, ai corsi sportivi e ai viaggi dei miei ragazzi in Italia…».

Padre Quirico è fiero di questa scuola che vanta una tradizione secolare e ha saputo affrontare le sfide della modernità adeguando programmi e strutture, anche a costo di grandi sacrifici. Ci mostra l’album delle fotografie dei «maturati» di ogni anno, dal 1957 (negli anni Cinquanta fu istituita la scuola superiore) al 2006: «La nostra scuola è aperta a tutti i cristiani dei diversi riti, ai musulmani e agli ebrei di cultura araba; è modello di ecumenismo, di integrazione e di fratellanza. Qui vedo germogliare la speranza che un giorno possiamo avere in tutta la Terra Santa una pace giusta e duratura».

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