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Gli «altri» cristiani

Elisa Pinna
13 dicembre 2006
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Gli «altri» cristiani
Sostegno a Israele dai cristiani sionisti.

Insediati da alcuni decenni nella città santa, i cosiddetti cristiani sionisti predicano il ritorno del Messia che avverrà alla fine dei tempi e sostengono le frange più oltranziste d'Israele contro la minaccia dell'«impero dell'islam»


Da alcuni decenni è arrivato a Gerusalemme un altro cristianesimo, che ha ben poco a che spartire con le Chiese storiche e la comunità cristiane di Israele e Palestina. Si fa chiamare cristianesimo sionista e si è insediato nella città santa, ostentando molti mezzi e un obiettivo preciso: aiutare gli ebrei a tornare in possesso della loro terra nei confini che la Bibbia indicherebbe, per accelerare in tal modo la fine dei tempi, l’Armagheddon e il ritorno di Gesù. Si tratta di una diramazione dell’evangelismo protestante più radicale, intrecciata con alcune delle sette più inquietanti e visionarie.

È un cristianesimo organizzato e militante, che identifica la propria missione religiosa con gli obiettivi delle forze più oltranziste di Israele e degli Stati Uniti. Con il suo spirito di crociata rischia di fomentare ulteriori rancori e di mettere a repentaglio la comunità araba cristiana locale e il suo ruolo di dialogo e mediazione.

Costituisce un pericolo talmente insidioso che alcuni capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme hanno deciso, il 22 agosto scorso, quando la guerra in Libano era appena terminata, di redigere un documento congiunto di condanna. Il testo è firmato dal patriarca latino Michel Sabbah, dal patriarca siro-ortodosso Saverios Malki Mourad, dal vescovo anglicano Riah Abu El Assal e dal vescovo luterano Munib Younan. «Noi rigettiamo categoricamente – si legge nel documento – le dottrine del sionismo cristiano come insegnamenti falsi che corrompono il messaggio biblico di amore, riconciliazione e giustizia».

«Il programma sionista cristiano – spiegano i capi religiosi cristiani di Gerusalemme – contiene una visione del mondo in cui il Vangelo è identificato con l’ideologia imperialista, colonialista e militarista. Nella sua forma estrema, pone l’enfasi su eventi apocalittici che conducono alla fine della storia piuttosto che sull’amore e la giustizia del Cristo vivo oggi».

«Rifiutiamo inoltre – proseguono i leader religiosi – l’attuale alleanza tra i capi e le organizzazioni dei sionisti cristiani e settori dei governi di Israele e degli Stati Uniti che oggi impongono i loro confini preventivi e unilaterali così come impongono il loro dominio sulla Palestina. Ciò porta inevitabilmente a cicli di violenza senza fine che minano la sicurezza di tutti i popoli del Medio Oriente e del resto del mondo».

Le parole di mons. Sabbah e degli altri tre capi religiosi lasciano pochi dubbi: nelle comunità storiche cristiane della Palestina i cristiani sionisti sono percepiti come uno scandalo e una provocazione. Se l’espansionismo delle sètte a livello internazionale costituisce una delle principali preoccupazioni pastorali della Santa Sede e di altre Chiese storiche, l’ombra del fanatismo religioso cristiano, che si allunga anche sulla Terra Santa, rischia di portare ad ulteriori tragedie e violenze, e non solo moltiplicare proselitismi e rivalità religiose.

Ben diversa è però l’ immagine dei cristiani sionisti nella società ebraico-israeliana, dove, col passare degli anni, si sono accreditati come un interlocutore privilegiato ed hanno acquisito potere, meriti, alleanze. L’ottobre scorso, l’Ambasciata cristiana internazionale di Gerusalemme (Icej), quartier generale e motore del cristianesimo sionista in Israele, è riuscita a far affluire nella città santa, per una settimana, oltre 5 mila sostenitori da 80 diverse nazioni, anche se in maggioranza nordamericani. Si è trattato del più grosso raduno di visitatori stranieri in Israele durante il 2006, un anno che, con la guerra in Libano, ha visto rallentare del 40 per cento il tradizionale turismo della diaspora ebraica e precipitare quasi a zero i pellegrinaggi religiosi di cattolici, ortodossi e protestanti. La grande manifestazione dei cristiani sionisti ha portato un incasso di oltre 15 milioni di dollari nelle casse dell’economia locale ed ha occupato 16 mila notti di posti letto negli alberghi fino ad allora semivuoti di Gerusalemme. Tanta mobilitazione non è stata per rimarcare qualche ricorrenza del calendario liturgico cristiano, ma per celebrare, insieme e in solidarietà al popolo ebraico «minacciato dall’impero dell’Islam», la festa del Sukkot, o delle Capanne, che rievoca la traversata del deserto, prima di arrivare nella Terra Promessa. Nella settimana di festeggiamenti, la folla di devoti, in un tripudio di bandiere a stelle e strisce e con la stella di Davide, di berretti da baseball e cappelli da cowboys, si è accalcata sulle rive del Mar Morto, ha risalito i tornanti verso Gerusalemme tra gli scenari drammatici del deserto, ha sciamato nei vicoli del vecchio quartiere ebraico e tra le strade della parte ovest israeliana della città, ha pregato davanti al Muro del Pianto. Tuttavia, a marcare ulteriormente l’abisso che vi è con le altre Chiese cristiane, ben pochi cristiani sionisti si sono affacciati nel Santo Sepolcro, quasi che questo luogo, pietra angolare della fede cristiana, fosse loro del tutto indifferente.

Le celebrazioni si sono concluse con un intervento del primo ministro israeliano Ehud Olmert. «Questo è stato un anno molto difficile per noi», ha esordito il premier. «Dio vi benedica – ha continuato – per il tipo di amicizia che ci offrite, che è particolarmente significativa per il popolo di Israele, in questi terribili tempi. Noi abbiamo avuto il coraggio di affrontare i nemici dello Stato di Israele, principalmente grazie ad amici come voi», ha scandito tra gli applausi di un auditorio esaltato.

I cristiani sionisti, in passato, sono stati sottovalutati dalla Chiesa cattolica e dalle altre comunità cristiane, quasi fossero solo una delle tante schegge impazzite del radicalismo evangelico nordamericano. In realtà il cristianesimo sionista rappresenta una lobby politico-religiosa che, dagli anni Settanta, si è rivelata capace di condizionare la politica mediorientale delle amministrazioni americane in chiave acriticamente filo-israeliana. Nella visione apocalittica dei cristiani sionisti, che sognano il dominio dello Stato ebraico sulla Palestina – su tutta la Palestina – come condizione per l’avverarsi delle profezie bibliche, si identificano circa 25 milioni di evangelici fondamentalisti negli Stati Uniti, su un totale di 120-130 milioni di protestanti. Sono concentrati negli Stati del Sud, galvanizzati dalla rete mediatica di telepredicatori come Pat Robertson, Franklin Graham, Jerry Falwell. Quest’ultimo ama affermare che la «Bible Belt (la cintura della Bibbia costituita dagli stati meridionali degli Usa) è la rete di sicurezza per gli israeliani». Innanzitutto perchè finanzia economicamente le colonie ebraiche nei territori e il rientro degli ebrei della diaspora in Israele. In secondo luogo, perché possiede un peso enorme nel potere decisionale della politica estera americana, dato che il presidente George W. Bush è stato eletto in entrambi i mandati con il voto determinante della destra evangelica e del sionismo cristiano. Dagli Stati Uniti, seguendo il percorso delle sètte, il cristianesimo sionista si è propagato in America Latina, in Africa, in Corea del Sud. L’Icej, che coordina sin dal 1980 l’attività politica, religiosa, assistenziale della multinazionale del cristianesimo sionista, si trova in una bella palazzina ottocentesca a due piani di Gerusalemme Ovest, a poche centinaia di metri dalla residenza di Olmert.

I circa 50 funzionari dello staff, nella quasi totalità statunitensi, si occupano di gestire i fondi destinati alle colonie ebraiche, a sostenere l’alya (il rientro degli ebrei in Israele), ed ora la ricostruzione della Galilea, dopo la guerra con gli Hezbollah. L’Icej lavora come un ente parallelo ai dicasteri israeliani e alle organizzazioni ebraiche. Gode di uno status privilegiato. A suggellare l’importanza del cristianesimo sionista, il Jerusalem Post, l’autorevole quotidiano conservatore israeliano, ha deciso di lanciare un mensile, il Jerusalem Post Christian edition, in collaborazione con l’Icej. «Vogliamo costruire un ponte tra la nazione ebraica e il popolo ebraico da un lato e il mondo dei cristiani dall’altro», ha spiegato nel primo editoriale, Moshe Bar-Zvi, presidente e amministratore delegato del giornale. Dove per mondo cristiano, sfogliando la rivista, si intende quello dei telepredicatori statunitensi e dei fondamentalisti evangelici. Delle comunità cristiane che da duemila anni vivono in Terra Santa, delle Chiese cattoliche, ortodosse e riformate ovviamente non vi è traccia.

 

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