Che lingua si parla in Israele? La risposta potrebbe sembrare ovvia: l'ebraico. Eppure non è affatto pacifico. Gli studiosi ne dibattono e qualcuno preferirebbe rispondere che gli israeliani parlano israeliano. È di questo avviso, ad esempio, Ghil'al Zuckermann, un linguista di Tel Aviv che propone di rimarcare le differenze tra la lingua di re Davide e quella oggi comunemente parlata in Israele.Zuckermann ne parla nel suo ultimo libro, intitolato Il mito dell'ebraico. Ai bambini israeliani, spiega l'autore, si insegna che l'Antico Testamento fu scritto nella loro lingua materna, ma in realtà non è così. L'ebraico moderno è piuttosto un mix di vari idiomi, alcuni dei quali di ceppo indoeuropeo. Ma non tutti i colleghi di Zuckermann concordano.
Che lingua si parla in Israele? La risposta potrebbe sembrare ovvia: l’ebraico. Per quanto ne sa l’uomo della strada, il profeta Geremia o Giuda Maccabeo non dovevano parlare in maniera troppo diversa da un comune giornalaio di Tel Aviv, in base a un rapporto di dipendenza linguistica per certi versi simile a quello che lega un londinese a Geoffrey Chaucer o un fiorentino a Dante Alighieri.
Eppure, su questo fronte, recentemente si è aperto un dibattito che rischia di oltrepassare le pareti dei salotti letterari e delle università per sconfinare, non senza polemiche e tensioni, nel campo minato della politica. Ad accendere la miccia della discussione è stato uno studioso di Tel Aviv, Ghil’al Zuckermann, che ha proposto di chiamare «israeliano» l’«ebraico», per rimarcare che tra la lingua di re Davide e quella parlata comunemente in Israele ci sarebbero gli stessi scarni rapporti che sussistono, ad esempio, tra l’italiano e l’etrusco. Zuckermann ha sviluppato l’argomentazione a sostegno della sua proposta durante la presentazione del suo ultimo libro – che si può leggere nel sito Internet del filologo – significativamente intitolato Il mito dell’ebraico: se già ai tempi di Cristo l’ebraico subiva lo scacco dell’aramaico, non più tardi di un secolo dopo esso è scomparso dalla bocca degli ebrei per rimanere soltanto nella versione congelata e gelosamente conservata dei testi religiosi.
Cosa c’entra allora la politica? La scelta di chiamare «ebraico» la lingua che si parla oggi in Israele è frutto dell’ideologia sionista del XIX secolo, tesa a comporre un’identità per lo Stato vagheggiato da Herzl e dai suoi discepoli; da quando il sogno, alla fine della seconda guerra mondiale, si è effettivamente realizzato, nel moderno Israele i cittadini sono sempre stati educati a ritenersi sotto tutti gli aspetti come diretti discendenti degli ebrei vissuti in Terra Santa 1.800 anni prima, anzitutto dal punto di vista linguistico.
Così, dice abbastanza rudemente Zuckermann, «i bambini israeliani subiscono un lavaggio del cervello per indurli a credere che l’Antico Testamento fu scritto nella loro lingua materna». In realtà non è così. L’ebraico moderno avrebbe un pedigree così composto: l’yiddish come componente fondamentale (il che ricondurrebbe l’ebraico moderno più al ceppo indoeuropeo che a quello semitico), poi, in minore misura, russo, polacco, tedesco, spagnolo ed ebraico «antico».
Tra le reazioni più autorevoli alle teorie di Zuckermann, va ricordata quella di Moshe Bar-Asher, presidente dell’Accademia israeliana della lingua ebraica: Zuckermann sarebbe condizionato nelle sue speculazioni dalla sua militanza politica anti-sionista e anti-americana; quanto all’ebraico moderno, esso deriverebbe direttamente da quello insegnato e conservato per secoli nei seminari rabbinici: un linguaggio, ammette Bar-Asher, «non parlato nelle strade», e tuttavia in perfetta continuità con quello utilizzato dagli antichi e pertanto in possesso dei requisiti di «lingua nativa».