«La vita a Betlemme è difficilissima da sopportare» scrive il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Michel Sabbah.Lo confermano, con la loro testimonianza diretta, le suore del Baby Hospital della cittadina palestinese in una lettera circolare del 9 dicembre scorso. Ne riportiamo un primo ampio stralcio.
«La vita a Betlemme è difficilissima da sopportare» scrive il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Michel Sabbah, nel suo messaggio natalizio.
Cosa significhi in concreto questa affermazione lo spiegano, con qualche esempio, le suore del Baby Hospital in una lettera circolare del 9 dicembre. Ne riportiamo un primo ampio stralcio.
Com’è oggi la vita a Betlemme? Ce lo chiedono i nostri amici, le persone che ricordano con amore i bambini del nostro ospedale e che si sentono solidali con la sofferenza di questo popolo.
Il Baby Hospital è un interessante punto di osservazione per capire la realtà di Betlemme; qui arrivano i bambini palestinesi bisognosi di cure, qui si protegge la loro fragile vita, qui le madri cercano aiuto e sostegno. La realtà che si trovano ad affrontare è spesso dura e ostile…
Le difficili condizioni in cui vivono tante famiglie, specie nei villaggi, pongono i bambini in una situazione di forte rischio di malattie. La disoccupazione tocca livelli altissimi e si fa sentire sempre più, con il carico di problemi a livello umano che inevitabilmente porta con sé; il marito disoccupato diventa «un figlio in più» da gestire, con un peso moltiplicato per la donna, non raramente soggetta a una vita priva di dignità: in molti casi, sfinita dalle continue gravidanze, la donna partorisce figli deboli e bisognosi di urgenti cure mediche. Le condizioni igieniche precarie, in particolare la scarsità d’acqua rendono ancor più fragile lo stato di salute dei bambini.
Il contatto diretto, quotidiano con le madri, ci permette di conoscere i loro drammi enormi, il mondo senza respiro in cui i palestinesi sono costretti a vivere una vita da prigionieri, privati della normale libertà di movimento e dei fondamentali diritti di un essere umano.
Eppure, nonostante tutte le difficoltà, qui i bambini sembrano avere una gran voglia di venire al mondo, come Bashir, nato sulla porta del nostro ospedale, un parto così facile, che….dice la mamma, «quasi non me ne sono accorta che stava venendo al mondo», ed ha voluto fermarsi al Baby Hospital, temendo di non poter raggiungere in tempo la clinica di maternità.
Le statistiche del nostro ospedale parlano chiaro: 3.500 ammissioni in un anno e circa 30 mila bambini seguiti negli ambulatori (circa 100 al giorno). Gli spazi di attesa sono pieni di voci, di strilli, di grida… ma sono ormai diventati stretti e affollati.
Stranamente ci sono anche giorni silenziosi e troppo tranquilli: sono i giorni in cui le maggiori restrizioni alla libertà di movimento e blocchi militari impediscono l’accesso a Betlemme, e i genitori non possono accompagnare all’ospedale i loro bambini bisognosi di cure.
Le situazioni più complesse da gestire sono i trasferimenti di un bambino dal Baby Hospital ad un altro ospedale, per particolari cure: il gran numero di persone coinvolte e le infinite procedure burocratiche rendono tale operazione una vera impresa.
Data la mancanza, in Betlemme, di reparti di cure intensive, reparti specialistici e chirurgici, per una consultazione o trasferimento ci si deve riferire a ospedali in Gerusalemme, ma per raggiungerli bisogna oltrepassare il muro: e qui si sperimenta fino in fondo la fatica di essere palestinesi. Una fitta rete di contatti si mette subito in moto per far sì che il trasferimento e le prestazioni mediche avvengano tempestivamente: genitori del bambino, medici, operatori sanitari e sociali, impiegati ed alcune persone che «contano» … sia in Palestina che in Israele, vengono coinvolti nel trovare un posto in ospedale, nel far funzionare l’assicurazione medica (quando c’è), o per fornirla quando manca, nell’ottenere il permesso per entrare in Israele, nel trovare le ambulanze… prima quella palestinese, e poi quella israeliana.
L’ambulanza palestinese trasporta il bambino fino al muro, al check point: qui il piccolo viene trasferito sull’ambulanza israeliana, che lo trasporta all’ospedale stabilito.
Tutto questo richiede un’enorme mole di lavoro, di contatti, di tentativi e tentativi, di paziente tessitura di infiniti dettagli, e richiede interminabili giornate, tempi lunghi, davvero troppo lunghi per un bambino che sta male… così Amira, due mesi di vita, in estrema necessità di cure specialistiche, ci ha pensato lei a risolvere la situazione e, stanca di aspettare la risposta che non arrivava mai, se n’è ritornata tra gli angeli quasi senza che ce ne accorgessimo.
Ma a volte le fatiche vengono ripagate. La dottoressa Antke, tedesca, in pochi anni diventata espertissima in trasferimenti di bambini ammalati, quando vede l’ambulanza israeliana allontantanarsi verso Gerusalemme portando al sicuro un bambino di Betlemme, fa volentieri un sospiro di sollievo e lascia che i suoi occhi sorridano di gioia; un’altra vita può essere salvata!