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Guida da 13 anni l'ospedale italiano di Haifa (Israele), centro d'avanguardia per le cure oncologiche. È suor Emanuela Verdecchia, diventata commendatore della Repubblica italiana per la sua opera a servizio dei malati.

Suor Commenda

Sara Laurenti
9 novembre 2006
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Suor Commenda
Suor Emanuela Verdecchia, da 14 anni dirige l'ospedale. (foto J. Kraj)

Che una religiosa sia anche manager e commendatore della Repubblica, non è notizia di poco conto. Suora per vocazione, manager per necessità e commendatore per la tenacia con la quale guida l’ospedale italiano di Haifa da tredici anni (nel 2004 ha ricevuto l’onorificenza dell’Ordine della Stella della Solidarietà italiana dalle mani del presidente Carlo Azeglio Ciampi). Emanuela Verdecchia, 63 anni, è anche un po’ condottiero per indole.

Mentre ci accompagna a visitare l’ospedale, la suora-manager racconta dei suoi giri per mezzo mondo a riordinare situazioni disperate: «Ero qui negli anni Settanta, poi sono stata chiamata in Libano, Marocco e in Italia, per poi tornare da dove sono partita», racconta con un sorriso. «Più passa il tempo più mi sento viva e piena di energia, ma questa volta in Israele è stata dura: l’ospedale di Haifa era ormai allo sfacelo. Ma non potevamo arrenderci», dice con convinzione. «Questo è stato il primo ospedale all’avanguardia nel Medio Oriente: il reparto di oncologia aveva la cobalto terapia negli anni Cinquanta e ancora oggi malati da tutto Israele vengono a curarsi da noi».

Protetta dalla Vergine. «Negli ultimi sette anni la struttura sanitaria è stata completamente rinnovata, e sono state allestite camere operatorie dotate di nuove apparecchiature tra le quali quelle per la radioterapia», spiega la religiosa. Attualmente è considerato uno degli istituti più all’avanguardia di Haifa ed è riconosciuto dal governo d’Israele come secondo ospedale oncologico della Galilea. «Pensavamo di perdere tutto con l’ultima guerra con il Libano: è caduta una bomba a pochi metri da noi, ma la Madonna non ci ha abbandonate, anzi ci ha protette».

L’attività ospedaliera dell’Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Ansmi), ente filantropico cattolico che ancora oggi cura i religiosi cristiani stranieri, iniziò in Israele nel 1907 grazie alla generosità e intraprendenza dell’industriale torinese Ernesto Schiapparelli. L’attuale struttura venne costruita su quattro piani nel 1931 su un terreno di circa seimila metri quadrati. Eppure, durante la prima guerra mondiale, le attività furono bloccate e il personale italiano obbligato ad andarsene. Nel 1948, con la nascita dello Stato di Israele, la struttura fu sotto la giurisdizione dell’esercito e solo nel 1951 fu riconsegnato agli italiani. Oggi suor Emanuela, della congregazione delle Suore francescane missionarie del Cuore immacolato di Maria, più note in Medio Oriente come le «Missionarie d’Egitto», dove vennero fondate da suor Caterina Troiani), è aiutata da cinque consorelle italiane e da altre quattro di diverse nazionalità.

Struttura d’avanguardia… Oggi la struttura, che sembra un albergo di lusso, dispone di 85 posti letto, di cui due terzi per l’oncologia, e dà lavoro a 85 persone: tra queste medici e infermieri ebrei, cristiani e musulmani. «Assumiamo il personale più qualificato: non ci interessano le scelte personali o la provenienza», rivela la dirigente. «Tutti gli operatori collaborano: questa è la nostra prima richiesta». L’ospedale vuole essere una scuola di convivenza etnica e religiosa nel Paese più teso e conteso del pianeta. Lo si avverte girando per i reparti. Tutti vogliono parlare con suor Emanuela e non la lasciano andare. «Quando sono giunta qui, negli anni Ottanta, ho fatto piazza pulita di chi non era competente», dice con cipiglio. «Probabilmente questo ci ha creato dei nemici e le gelosie non sono mai mancate: di recente abbiamo inaugurato l’ortopedia, subito dopo ci sono arrivati dodici controlli, ma noi li abbiamo superati tutti», ride soddisfatta.

Dalla parte dei poveri. Grazie a questi cambiamenti l’ospedale è stato ufficialmente apprezzato anche dai cittadini arabi ed ebrei. «Sapeste quanti rabbini russi, immigrati di recente nel nord d’Israele, arrivano qui sospettosi e poi se ne vanno commossi. Ci ringraziano della dedizione e dell’umanità con cui li curiamo», confida. A mezza voce racconta di alcuni pazienti che in punto di morte hanno chiesto di essere battezzati. Grazie a una gestione oculata e attenta, quest’ospedale è uno dei pochi ad accogliere molti drusi, ma specialmente palestinesi dalla zona di Betlemme che non hanno possibilità di pagarsi le cure perché privi di assistenza sanitaria. «Abbiamo deciso – confida – di offrire assistenza gratuita anche a chi non ne avrebbe diritto. Rileggendo tutto quello che è avvenuto in questi anni, mi sono resa conto che più siamo generose con il prossimo, più il Signore ci ricolma dei suoi beni: il lavoro aumenta, riusciamo a pagare i debiti enormi, e possiamo accogliere e curare i nostri fratelli cristiani», si entusiasma.

Suor Emanuela è riuscita in quest’impresa anche grazie agli stretti rapporti di scambio e collaborazione, per lo più nel campo della ricerca, con diverse istituzioni italiane tra le quali la facoltà di Medicina della Sapienza di Roma e l’Istituto europeo di oncologia di Milano. «Non voglio dimenticare di ringraziare la Conferenza episcopale italiana che ci ha sostenuto con 200 mila euro quando dovevamo ripristinare l’oncologia».

Lasciamo l’instancabile suora-manager-commendatore nel suo ufficio: ha sempre tanto da fare. «Per riposare c’è sempre tempo», scherza. Addirittura sembra non averne bisogno visto il vigore e la grinta che si ritrova. La recente onorificenza la fa sorridere: «Il Signore ci chiede di non fermarsi davanti alle minuzie, ma di rendergli sempre giustizia».

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