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Turchia, l'attesa visita di Benedetto XVI

Ecco cosa vorrebbero dire i cristiani al Santo Padre

Mavi Zambak
9 novembre 2006
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Ecco cosa vorrebbero dire i cristiani al Santo Padre
Fedeli cristiane del sud della Turchia in preghiera.

Si svolge in questi giorni la visita in Turchia di Papa Benedetto XVI. Definito il programma del suo viaggio, i cristiani locali si sono organizzati per andare ad incontrarlo, anche dagli angoli più disparati dalla Turchia. Ma, ironia della sorte, mentre è risaputo che i giornalisti stranieri accreditati che si potranno accalcare intorno al Papa per strappargli foto, filmati e parole saranno forse più di mille, tutti i cristiani (per lo più cattolici, ma sicuramente anche greco-ortodossi e armeni) provenienti dal vicariato dell’Anatolia, un territorio vasto una volta e mezza l’Italia, saranno a mala pena duecento. Tre o quattro pullman che affronteranno più di mille chilometri per radunarsi attorno al proprio pastore ad Istanbul il primo dicembre, per ascoltare da lui parole di incoraggiamento e di speranza. Ma anche con il desiderio di potergli raccontare le proprie preoccupazioni, fatiche e speranze in questo periodo storico particolare.

Si sa, la cristianità in Turchia, è proprio ridotta ad un lumicino: nel 1914 i cristiani erano ancora 2 milioni e mezzo (cioè il 25 per cento della popolazione); ora non raggiungono i 150 mila, ovvero lo 0,15 per cento dei 70 milioni di abitanti del Paese.

Se poi si pensa che è in Turchia che si moltiplicarono le comunità fondate da san Paolo; che questa terra divenne il primo ambiente missionario della storia della Chiesa; che qui il Vangelo arrivò da Gerusalemme e da qui si diffuse nel mondo intero dopo la resurrezione di Gesù, per queste minuscole comunità cristiane silenziose sparse su tutto il territorio, la tentazione forte è quella di chiudersi nell’anonimato, di confondersi tra gli altri per paura e per opportunismo, di cedere allo scoramento e alla rassegnazione.

Ma oggi, i cristiani, a lungo ignorati, vogliono far sentire la propria voce al Papa.

Il motivo che spinge il Santo Padre a visitare la Turchia in questo mese di novembre è proprio quello di rinsaldare legami di comunione ed affetto. Sappiamo quanto a Benedetto XVI stia a cuore il dialogo, sia ecumenico che interreligioso. Per questo incontrerà sia il patriarca greco ortodosso Bartolomeo I che quello armeno Mesrob II, oltre alle autorità civili e religiose i slamiche. Ma dal Papa ci si aspetta soprattutto che venga nelle vesti di Padre. Ne hanno bisogno più che mai i cristiani turchi che attendono da lui un sostegno umano e spirituale: sarà una preziosa occasione per scrollarsi di dosso quel senso di solitudine che li attanaglia, per stringersi attorno a lui, come a una guida energica e decisa, sicuri che come successore di Pietro sarà una voce capace di rinverdire e rimotivare la speranza che è in loro.

A livello di gerarchia ecclesiale è una visita estremamente importante e «peserà» sui rapporti tra cattolici ed ortodossi (è prevista una dichiarazione comune) come su quelli tra cattolici e musulmani. Ci si aspetta anche che il Papa riproponga le richieste – già presentate invano tre anni fa al governo turco – relative al rispetto della libertà religiosa, al riconoscimento dei diritti delle minoranze in Turchia e allo status giuridico della Chiesa.

I cristiani anonimi dell’Anatolia si augurano soprattutto che Benedetto XVI abbia tempo da dedicare anche a loro, perché possano raccontare la loro vita, il loro coraggio, la loro perseveranza nel dialogo e nella convivenza pacifica.
Saranno dunque dal Papa per ascoltare, questi cristiani dell’Anatolia, ma anche per farsi ascoltare.
I cristiani di Antiochia, per esempio, vogliono testimoniare come da anni vivono in semplicità la comunione ecumenica fatta di piccoli ma significativi e concreti gesti.

Da quindici anni i cattolici celebrano la Pasqua nella stessa data degli ortodossi, partecipano alle loro iniziative e questi ultimi fraternamente contraccambiano; celebrano insieme matrimoni e funerali, collaborano per le opere caritative della città.

Gli armeni, provenienti dall’unico villaggio sopravvissuto al genocidio grazie ai loro antenati, che ebbero il coraggio di rifugiarsi sulla montagna di Mosè, sanno che il Papa incontrerà il loro patriarca Mesrob II. E vorrebbero raccontare personalmente al Santo Padre che, nonostante la maggior parte della popolazione turca consideri ancora tabù il genocidio armeno e il «Grande Male» susciti un gran vespaio in diverse nazioni europee, da anni hanno instaurato legami di amicizia e di rispetto con la gente del luogo con cui abitano.

I cristiani convertiti dall’islam, ben consapevoli di quanto i mass media nazionali polemizzino contro il presunto proselitismo, vorrebbero dire a Benedetto XVI che sono rinati alla fede da cristiani non perché sono stati pagati, né plagiati da nessuno, ma piuttosto perché hanno scoperto l’amore di Gesù Cristo grazie a chi ha saputo testimoniare loro il perdono e la misericordia di Dio. Nonostante le calunnie e le ostilità anche da parte della loro stessa famiglia, con fierezza vogliono testimoniare il Vangelo in una società che per legge ammette le conversioni degli adulti.

I cattolici di vecchia data, benché discriminati dalla società, vorrebbero raccontare il loro rapporto con i vicini di casa musulmani: uno scambio di vita semplice e naturale costruito sulla fiducia, sulla collaborazione, sul confronto e sulla stima reciproca.

Questa la tensione al dialogo che tutti i cristiani in Turchia vivono quotidianamente per creare quel clima di pace tanto auspicato da Benedetto XVI. Avranno la possibilità di darne testimonianza?

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