Fra vent’anni non ci saranno più cristiani in Iraq». Quando il quotidiano britannico The Guardian titolava in questo modo una notizia riguardante una donna irachena, padre Boulos era ancora in vita. Oggi, la voglia di lasciare il Paese è sicuramente aumentata dopo che il corpo di questo sacerdote siro-ortodosso è stato ritrovato a Mossul brutalmente martoriato l’11 ottobre scorso.
Padre Boulos Iskander Bahnam era stato sequestrato tre giorni prima da un gruppo sconosciuto che aveva chiesto per la sua liberazione il pagamento di un riscatto di 350 mila dollari. «Sono sfiduciato – ha detto un fedele siriaco presente ai funerali -. Padre Boulos era un vero maestro di dialogo e un uomo di pace. Ricordo che diceva ogni giorno di non sapere cosa potesse accadergli. Comunque sarebbe tornato tra le braccia di Dio Padre». Un altro fedele ha affermato che «nessuno oggi potrà invidiare i cristiani iracheni, ma la nostra Chiesa è fondata sul sangue dei martiri e noi non dobbiamo avere paura di coloro che possono uccidere solo il corpo».
Ai funerali del sacerdote ha partecipato anche il vescovo siro-cattolico di Mossul, monsignor Georges Casmoussa, lui stesso vittima all’inizio dell’anno scorso di un rapimento. Suo il riferimento alle parole dell’apostolo Paolo, di cui il prete assassinato portava il nome. «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà», ha detto il vescovo rivolgendosi al sacerdote prima di dargli l’ultimo saluto.
Il brutale assassinio (padre Boulos è stato ritrovato con la testa e le braccia mozzate) coin cide con la denuncia della Chiesa irachena secondo la quale, negli ultimi tre anni, sarebbero fuggiti all’estero oltre 100 mila cristiani. Un drastico calo per un gregge già piccolo, ma che vanta una storia due volte millenaria che la tradizione fa risalire alla predicazione dell’apostolo Tommaso. In Siria, dove già vivono almeno 35 mila cristiani iracheni, il 44 per cento di tutte le richieste di asilo presentato all’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) proviene proprio da cristiani iracheni.
Un dato significativo se si pensa che nel Paese i cristiani rappresentano solo il 3 per cento della popolazione irachena. Molti profughi dicono di essere fuggiti perché hanno ricevuto lettere intimidatorie. «Siamo consci della nostra missione», mi dice uno di costoro durante un incontro a Damasco. «Ma quando la nostra patria diventa terreno di violenze, non rimangono molte alternative: o ci lasciamo massacrare o ce ne andiamo via perché nessuno, né il governo né le autorità religiose, hanno i mezzi per proteggerci». Altri profughi parlano di cristiani costretti a convertirsi o a versare un «contributo al jihad».
Altri ancora parlano di donne cristiane costrette a portare il velo i slamico oppure di discriminazioni al lavoro e a scuola. «Prima vivevano tranquillamente insieme, sunniti, sciiti e cristiani. Ora, a scuola i bambini definiscono il cristiano come un kafir, un miscredente», denuncia la signora Wijdan Mikhail, l’unico ministro cristiano dell’attuale governo iracheno.
L’esodo è presente agli occhi di tutti. In molte chiese i parroci hanno ridotto il numero delle celebrazioni domenicali. Padre Khoshapa, responsabile della parrocchia della Vergine Maria a Mossul dichiara di rilasciare ogni settimana una cinquantina di certificati di battesimo necessari per confermare l’appartenenza religiosa all’estero, contro solo uno o due in passato. Moltiplicati per il numero delle parrocchie in questa città del Nord non ci si può non accorgere della gravità di un’emorragia che rende ancor più precario il destino di chi decide di rimanere.