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ll futuro dei cristiani in Terra Santa? Questione di coscienza

09/10/2006  |  Torino
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Nostra intervista al patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Michel Sabbah. Che parla dell'attualità in Israele e nei Territori palestinesi e la definisce come una situazione di stallo. La gente vuole pace e non la ottiene. Per questo molti emigrano e non solo tra i cristiani. Come Chiesa - dice Sabbah - continuiamo a ripetere che va rispettata la dignità di tutti gli uomini e che tutti hanno le loro colpe nel conflitto in corso. La Terra Santa continuerà ad essere casa per i cristiani che vi sono nati, se crescerà in loro la coscienza di avere una vocazione speciale a testimoniare il Vangelo di Gesù proprio nella terra in cui si è fatto carne.


In occasione di un recente soggiorno in Italia del patriarca latino di Gerusalemme, ospite della diocesi di Mondovì (Cuneo), abbiamo avuto modo di incontrarlo e rivolgergli alcune domande.
Michel Sabbah tocca le questioni d’attualità e aiuta a fare chiarezza su una realtà complessa ma non priva di speranza.

Monsignor Sabbah, come inizia questo autunno in Terra Santa? Dopo la guerra in Libano e nel Nord di Israele, quali ferite e quali speranze restano?
Con l’autunno abbiamo ritrovato la calma e la normalità: la normalità dei conflitti ordinari, quelli che non fanno più notizia, ma che lasciano aperte ferite lente a rimarginarsi. Mi riferisco soprattutto alla situazione nei Territori palestinesi, dove il ciclo di violenza non ha fine: per la caparbietà di Israele a seguire la linea dura e per l’intransigenza di Hamas a non riconoscere la via del compromesso. È una situazione di stallo, perché anche l’America non vuole trattare con il governo palestinese e l’Europa, che forse sarebbe pronta a collaborare, non si sbilancia.

Nei suoi diciannove anni alla guida della Chiesa di Gerusalemme, Lei ha visto alternarsi periodi apparentemente tranquilli a tempi tragici: si può dire che la gente si sia abituata a questi ricorsi storici?
I medici si sono abituati a soccorrere le vittime, e anche noi, che non siamo toccati direttamente dalla violenza, rischiamo di avere uno sguardo distaccato. Non è così per tante madri e tanti padri, che non trovano cibo per i loro bambini e non vedono un futuro per la propria famiglia. La gente non si abitua a questa precarietà e appena può emigra. Certo non manca la fantasia per sopravvivere. Oggi, ad esempio, molti artigiani hanno trovato il modo di esportare i loro prodotti negli Stati Uniti, dove alcuni famigliari emigrati hanno organizzato una rete di distribuzione. Resta comunque una situazione difficile, che nei Territori (penso a Gaza soprattutto) è di miseria grave e preoccupante.

Quali ripercussioni sugli equilibri sociali in Terra Santa ha portato il recente conflitto libanese? In particolare quali conseguenze per i cristiani e per i pellegrini?
Purtroppo la logica degli Hezbollah si è diffusa e ha fatto sì che i partiti palestinesi più estremisti si siano convinti di poter vincere Israele, senza capire invece che usando la forza si dà nuovo vigore al nemico. Parallelamente anche la logica aggressiva di Israele ha contributo a esasperare le tensioni senza ottenere più sicurezza.
I cristiani hanno patito soprattutto al Nord, dove sono stati colpiti dai bombardamenti come tutti gli altri, musulmani ed ebrei. I razzi katiusha, dal suono terrificante, hanno terrorizzato la popolazione. Uno di essi, ad Haifa, è caduto anche nella nostra proprietà, colpendo una casa dalle suore del Rosario.
Inoltre si sono interrotti i pellegrinaggi, questa volta con ragione. È stata la prima volta in cui ho ammesso che visitare la Terra Santa era pericoloso: normalmente le tensioni sono localizzate e non toccano le vie dei pellegrini, ma durante il conflitto libanese i missili hanno rappresentato una minaccia imprevedibile. Ora grazie al Cielo la situazione è rientrata e sono già ripresi i pellegrinaggi.

Come ha risposto la Chiesa alla situazione di emergenza?
Con fermezza ed equidistanza. Come Chiesa noi guardiamo innanzitutto alla persona, indipendentemente dall’appartenenza etnica, politica e religiosa. Abbiamo ripetuto più volte che tutti gli uomini hanno la stessa dignità e non abbiamo avuto paura di dire che tutti in questo conflitto hanno portato morte e che tutti sono in qualche modo colpevoli. Capiamo bene le esigenze del popolo israeliano, che ha diritto a riavere i prigionieri e a vivere in sicurezza, ma condanniamo la guerra come strumento per ottenere i propri scopi, sia in Libano sia nei Territori…

Qui da noi si è data molta enfasi alle reazioni del mondo musulmano alle parole pronunciate dal Papa a Ratisbona. Quale eco c’è stata in Terra Santa?
Non ci sono stati incidenti degni di nota. Un episodio a Nablus, dove un’auto di facinorosi ha buttato bottigliette incendiarie contro le chiese. Devo dire che i capi religiosi e le autorità civili si sono attivati per prevenire incidenti più gravi, che invece sono successi in quei Paesi dove non c’è un governo forte.

Guardando al futuro, troveremo sempre i cristiani in Terra Santa?
È una domanda che ci sentiamo ripetere spesso e, come dice san Paolo, ci pare di esser «spettacolo per il mondo», quasi una razza in via di estinzione. Forse perché l’emigrazione, che d’altra parte coinvolge tutti in Terra Santa, per noi è una minaccia significativa. Dal 2% sul totale della popolazione, siamo passati all’1,8 e forse anche meno… Quanti saremo in futuro? L’avvenire dei cristiani dipende sì dall’emigrazione, ma ancor più dalla nostra coscienza: abbiamo la vocazione, unica al mondo, di esser cristiani nella terra di Gesù, dove Lui non fu riconosciuto e dove noi, ancora oggi piccola comunità, siamo chiamati a una vita difficile. Dobbiamo essere testimoni sia verso i musulmani sia verso gli ebrei, sia nei Territori sia in Israele, condividendo le condizioni dei palestinesi o degli arabi israeliani. Una vita difficile a cui non dobbiamo sottrarci. L’Eucaristia non deve esser solo un rifugio, ma una spinta per essere più presenti e vitali nella società. Se ci sarà questo senso di responsabilità cristiana, ci saranno sempre i cristiani in Terra Santa.

I cristiani dell’Occidente possono venire in aiuto dei loro fratelli in Terra Santa?
Vedo tre vie urgenti e percorribili: farsi presenti come pellegrini, considerare la situazione in Terra Santa come propria, in quanto patria delle proprie radici, e quindi favorire la pace operando ciascuno nel proprio ambiente. Infine orientare la carità a progetti concreti, per ospedali, scuole, case di assistenza…

Lei viene spesso in Italia. C’è un legame particolare del nostro Paese con la Terra Santa?
Direi di sì. Non solo c’è il Papa, ma ci sono anche tante occasioni per portare la mia testimonianza in Italia. Le vostre Chiese sono molto vicine alla Chiesa di Terra Santa e non dimentichiamo che gli italiani sono stati i primi pellegrini e i più numerosi… Questo è dovuto certamente anche ai francescani, che dai tempi di san Francesco hanno mantenuto vivo il legame con la terra madre della nostra fede.

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