Sono quelli che «fanno la salita» (aliya), cioè gli ebrei - o i loro famigliari più prossimi - che vivono in varie parti del mondo e a un certo punto piantano baracca e burattini e decidono di andare a vivere in Israele. Quello degli olim è un flusso che non si è mai esaurito negli ultimi decenni. Anche quest'anno sono decine di migliaia. Nonostante le minacce terroristiche e i conflitti latenti sempre pronti ad esplodere, come nel luglio scorso.
(g.s.) – Neppure in luglio-agosto, mentre la guerra incalzava in Galilea e Libano, il flusso s’è fermato. Parliamo degli olim, gli ebrei che da qualunque parte del mondo scelgono di piantare tutto per trasferirsi a vivere in Israele.
Durante il mese di conflitto aperto con gli Hezbollah ne sono arrivati 3.500. Per 520 di loro – giunti il 16 agosto da Europa e Nord America – il primo ministro Ehud Olmert ha voluto improvvisare una cerimonia di benvenuto all’aeroporto di Tel Aviv.
Israele è oggi anche terra di emigrazione: partono alla ricerca di condizioni di vita più tranquille non solo gli arabi cristiani o musulmani, ma anche famiglie di ebrei. Resta vero, però, che l’attaccamento ideale allo Stato di Israele induce molti a sfidare ogni timore e le incognite del futuro per venire fin qui, in una terra che considerano già patria e casa.
La Jewish Agency – organismo fondato nel 1929 e specializzato nel promuovere i flussi immigratori degli ebrei da tutto il mondo – stima che nel corso del 2006 i nuovi arrivi saranno 24 mila.
Dal 1950 vige in Israele la cosiddetta Legge del ritorno. Essa riconosce il diritto ad immigrarvi agli ebrei di tutto il mondo. Un emendamento del 1970 prevede che di tale diritto sia titolare non solo chi è nato da madre ebrea (criterio principe per determinare l’appartenenza al popolo israelita) ma anche ai familiari più stretti di un ebreo e a chi si è convertito alla religione ebraica.