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Nuovi ritrovamenti nell'antica basilica bizantina.

Sebastiya, scoperte archeologiche nel nome di Giovanni il Battista

Michele Piccirillo
26 settembre 2006
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«A quattro leghe da Jenin, verso sud, si trova la città di Sebaste, che una volta si chiamava Samaria quand’era la capitale di dieci tribù chiamate Israel; adesso per i peccati commessi non ha nessuna casa, all’infuori di due chiese costruite in onore di san Giovanni Battista. Una, che era la principale e cattedrale, i saraceni la convertirono in moschea, specialmente il sepolcro del medesimo beato Giovanni Battista che era fatto di marmo, a somiglianza del sepolcro del Signore… Codesta chiesa è posta sul lato del monte nella discesa. I saraceni onorano molto il beato Giovanni, dopo Cristo e la beata Vergine, avendo di lui una grande stima… Dicono che Giovanni sia stato un grande e santissimo profeta».

Così scriveva, nel 1283, il domenicano padre Burcardo del Monte Sion, dopo aver visitato il villaggio semideserto, con la chiesa di San Giovanni già diventata moschea in seguito alla sconfitta dell’esercito crociato, da parte del Saladino, nel 1187. La visita e la venerazione per la tomba del Battista danno al religioso lo spunto per ricordare ai suoi lettori cristiani d’Europa la considerazione di cui il Precursore godeva, come profeta, tra la popolazione musulmana, sulla base di una tradizione dalle origini antiche.

Già verso il 390, a Betlemme, traducendo in latino l’Onomasticon dei Luoghi Santi redatto in greco da Eusebio, vescovo di Cesarea, alla fine III – inizio del IV secolo, san Girolamo aggiungeva alla voce Samaria/Sebastiya: «dove sono conservati i resti di san Giovanni Battista». Lo stesso autore situa la tomba di san Giovanni a Sebastia nel resoconto del pellegrinaggio ai Luoghi Santi di santa Paola Romana.

Il suo contemporaneo Rufino di Aquileia nella Storia Ecclesiastica dedica una lunga pagina a ciò che avvenne a Sebastia nel 361-362 al tempo di Giuliano l’Apostata: i pagani di Sebastia distrussero la venerata tomba del Precursore e ne dispersero le ceneri così come avvenuto ad Antiochia, dove le reliquie di san Babila furono sfrattate dall’oratorio fatto costruire da Cesare Gallo in onore di Dafne, nei pressi della fonte Castalia e del santuario di Apollo.

Parte delle reliquie del Battista furono salvate da alcuni monaci di passaggio che le consegnarono all’igumeno Filippo a Gerusalemme. «Al tempo dell’imperatore Giuliano… a Sebaste, città della Palestina, avvenne che i pagani invasero il sepolcro di san Giovanni Battista: dapprima ne dispersero le ossa, ma poi le raccolsero di nuovo per bruciarle; mischiarono con della polvere quelle sacre ceneri e le dispersero per campagne e villaggi. Ma per disposizione divina avvenne che da Gerusalemme sopravvenissero alcuni provenienti dal monastero di Filippo… mischiatisi fra coloro che raccoglievano le ossa destinate al fuoco, dopo averne raccolti essi pure con molta cura e pietosa premura, per quanto riusciva loro possibile, si allontanarono di là furtivamente… e recarono al santo padre Filippo quelle venerande reliquie».

Giovanni Rufo, discepolo e biografo di Pietro l’Ibero, vescovo di Maiuma di Gaza, è il primo a ricordare, verso il 515, una chiesa costruita sulla tomba del Battista a Sebastie: «Questo luogo, in effetti, era una cappella particolare della chiesa, ornata di cancelli perché ci sono due urne coperte d’oro e d’argento, davanti alle quali bruciano lampade perenni: un’urna è quella di san Giovanni Battista e l’altra quella del profeta Eliseo; un trono ricoperto da un drappo sul quale mai nessuno si sedeva è posto in quel luogo». Le reliquie furono poi spostate nella chiesa superiore dove le videro i pellegrini di epoca crociata.

Manca in questi racconti l ricordo di come e quando le reliquie di san Giovanni, ucciso nella fortezza di Macheronte in Transgiordania – secondo lo storico Giuseppe Flavio – siano giunte a Sebastiya in Palestina.

A parte l’accenno importante in Nurchardo secondo cui questa era la chiesa cattedrale, nulla si dice, nei resoconti dei pellegrini, dell’episcopio o dell’eventuale torre campanaria; tanto meno della loro ubicazione. Gli abitanti del villaggio hanno continuato a indicare il jarasiyah, il campanile, in una costruzione quadrangolare ben costruita con blocchi ben squadrati a una decina di metri dalla parete meridionale della chiesa, oltre la porticina – finora bloccata – che una volta permetteva di entrare nel santuario da sud. Con il tempo, nell’area erano state costruite delle semplici abitazioni addossate al bel paramento crociato della parete della chiesa-moschea. Da decenni le case abbandonate erano cadute in rovina e il luogo diventato impraticabile. Tra gli abitanti si parlava anche di un jinn (spiritello) che teneva lontano persino i bambini che per caso vi si avventuravano.

Sei mesi di impegno da parte dei restauratori italiani e di lavoro per gli uomini del villaggio, da anni isolati e disoccupati – in un’area come questa, separata dal mondo – e ben felici di misurarsi con il jinn pur guadagnare un pezzo di pane per la famiglia, hanno operato il miracolo. L’intervento è stato reso possibile grazie a un fondo messo a disposizione dal ministero degli Esteri italiano e alla generosità di un professore dell’università di Bir Zayt che ha donato al municipio le rovine di proprietà della sua famiglia. Così, l’8 giugno scorso il console d’Italia a Gerusalemme, Nicola Manduzio, ha potuto inaugurare, alla presenza del sindaco e di tutta la comunità – radunata per l’occasione nel cortile lastricato davanti alla porta del santuario – il nuovo centro culturale di Sebastiya. La struttura si propone come luogo di riunione e di aggregazione, ma ospita anche un piccolo museo allestito dall’architetto Osama Hamdan. Sull’ingresso e all’interno di una bella sala a volta sono esposti, ben in evidenza, alcuni dei capitelli ritrovati durante i lavori. I manufatti appartenevano certamente alla basilica di epoca bizantina. Sulle foglie di acanto dei capitelli di stile corinzio domina la croce in cerchio con l’aggiunta delle lettere apocalittiche A e W, una rarità per le chiese di Palestina. Gli altri reperti sono stati lasciati al loro posto, laddove i capomastri crociati e i loro successori di epoca moderna li avevano riutilizzati come materiale di costruzione.

La sala a volta che fa da raccordo tra la parete della chiesa e la struttura di epoca crociata non ha nulla a che fare con le povere stanze costruite dagli abitanti del villaggio. La nobiltà tecnico costruttiva ne fa ipotizzare un possibile rimando proprio al chiostro dei canonici se non alla casa del vescovo, che sappiamo aver avuto sede proprio in questa chiesa. Solo la continuazione dei lavori potrà fornire chiarimenti.

Nella foresteria qui situata in epoca crociata venivano anche ospitati prìncipi musulmani. Ne danno testimonianza le memorie di Usamah ibn Munqidh, emiro della città di Shaizar nella Siria centrale, venuto a Gerusalemme per far visita al suo amico, il gran maestro dei templari: «Feci visita alla tomba del figlio di Zaccaria – la benedizione di Dio sia su entrambi – nel villaggio di Sebastiah, nella provincia di Nablusa. Dopo aver recitato le mie preghiere, uscii in uno spazio chiuso davanti al luogo dove si trova la tomba. Trovai una porta mezzo chiusa, la aprii ed entrai in chiesa. Dentro c’era una decina di uomini anziani, le teste scoperte e bianche come cotone pettinato. Erano rivolti verso est e avevano sul petto dei bastoni che terminavano con delle strisce di ferro arrotolate all’insù – come la parte posteriore di una sella – sui quali erano appoggiati. Da loro uno riceve ospitalità. La vista della loro devozione mi toccò il cuore, ma nello stesso tempo mi di spiacque ed amareggiò, perché non avevo mai visto tanto zelo e devozione tra i musulmani».

 

(L’autore è archeologo dello Studium Biblicum Franciscanum)

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