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Il canto di Rina

Giorgio Acquaviva
26 settembre 2006
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Il canto di Rina

Cinque anni fa moriva una donna che ha lasciato una traccia profonda nella piccola comunità cristiana ebreofona di Gerusalemme. La Geftman ha vissuto nel segno del dialogo tra ebrei e cristiani.


La prima volta che l’ho incontrata, mi offrì un bicchiere di acqua fresca. Faceva caldo, a Gerusalemme, e l’emozione mi aveva seccato la gola. Una chiacchierata nell’accogliente appartamento di rue des Prophets (e dove, se no?), che si tramutò in una intervista ma, soprattutto, nella scoperta di quella realtà minuscola e significativa che è la comunità cristiana di lingua ebraica.

Si presentò come Rina, ma prima di raccontarne la vita mi sembra giusto ripercorrere la storia del suo nome, perché – nelle culture semitiche – è nel nome che si cela il «cuore» di una persona.

La famiglia, russa ma di ascendenze tedesche (del filone ebraico-ashkenazita), le impose il nome di Renata («perché secondo mia madre suonava bene», dirà scherzosamente lei stessa).

Quando i Geftman si trasferirono in Germania, il nome fu iscritto agli albi civici come Renate, e in Francia (per quarant’anni) sarebbe stato Renée.

In ogni caso c’era un destino iscritto in quel nome. E quando approdò in Israele la nostra amica scelse di chiamarsi Rina, che in ebraico significa «canto di gioia». Avete presente il Salmo 42? («Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge: / attraverso la folla avanzavo tra i primi / fino alla casa di Dio, / in mezzo ai canti di gioia / di una moltitudine in festa»).

Rina Geftman era nata a Sebastopoli nel 1914 ma – come ebbe a dire padre Marcel Dubois ai suoi funerali ad Ain Karem il 18 ottobre 2001 – il suo vero dies natalis va considerato il 15 ottobre, giorno in cui il Signore la chiamò a sé. Era la festa di santa Teresa d’Avila, fondatrice del Carmelo («Giardino di Dio»).

Spinta sulla via dell’esilio dalla rivoluzione bolscevica, la sua famiglia passò per la Turchia e l’Austria prima di approdare in Germania. Qui il primo episodio che le rivelò il suo essere «segnata da un marchio di cui non riuscivo a capire il significato», come Rina stessa ricorderà: «Dei ragazzacci mi avevano scagliato contro delle pietre, gridandomi: Maledetta ebrea!… Che avevo fatto di male? Perché queste ingiurie rivolte al nome di ebreo?». Aveva dieci anni. La famiglia si spostò ben presto in Francia. A Parigi, lentamente Rina comprese che nel Nuovo Testamento il popolo ebraico non era maledetto, ma benedetto. «Anzi – scriverà anni dopo – esso era fonte di benedizione per tutte le nazioni». Scoprì anche che le promesse mai revocate si erano realizzate, e che Gesù di Nazareth era davvero il Signore e il Messia atteso. Che Gesù era ebreo (anzi, lo è, dal momento che è risorto col suo corpo circonciso).

Il giorno della svolta rimase per sempre scolpito nella sua memoria: 12 luglio 1930. Aveva accompagnato un’amica a messa, anche se non sapeva bene di cosa si trattasse… A un certo punto si è ritrovata in ginocchio (era la prima volta!), prese a balbettare il nome di Gesù, mentre le tornava alla mente il versetto del Salmo 118: «Lampada per i miei passi è la tua Parola, luce per il mio cammino». Capì allora che non si trattava più solo della Parola, ma di una Presenza. Non fu facile arrivare al battesimo, anche perché l’ambiente ebraico della sua famiglia e dei suoi amici e conoscenti non vedeva di buon occhio le «conversioni». Si confidò con un sacerdote, poi ne parlò alla madre. Ma alla fine decise e a 18 anni fece il grande passo, senza rinunciare alla sua «ebraicità».

E venne il momento della aliyà (la salita) a Gerusalemme, nel 1965, che comportava però una scelta drammatica: utilizzare, come ebrea, la «legge del ritorno» o entrare in ‘Eretz Jisra’el come cristiana e di fatto «tradire» il suo popolo? Né l’uno, né l’altro: Rina chiese e ottenne di diventare cittadina d’Israele mantenendo le due identità. Per ricordare alla Chiesa che la sua radice sta nell’ebraismo e per dire agli ebrei, come Giu seppe che si svela: «Sono io, vostro fratello!»

L’attività di Rina Geftman a Gerusalemme fu scandita da iniziative di dialogo, di collegamento e conoscenza fra mondo ebraico e mondo cristiano.

La Maison d’Isaie, fondata da padre Bruno Hussar, il domenicano di origine ebraica che poi darà vita all’esperienza di Nevé Shalom. Un luogo di approfondimento teologico sulle origini ebraiche del cristianesimo.

Il Centre Mambre (di cui fu tra gli ideatori e i fondatori), nato all’indomani della guerra del Kippur per lavorare in un’ottica interreligiosa e disinnescare ogni forma di antisemitismo. L’ispirazione venne dal luogo delle querce sotto le quali Abramo accolse i tre misteriosi personaggi che gli annunciarono la nascita del figlio Isacco.

E, naturalmente l’Opera di san Giacomo apostolo, dove si raccoglieva la comunità cattolica di espressione ebraica, celebrando l’Eucaristia nella lingua d’Israele. Rina non ha vissuto la trasformazione finale di quella esperienza, che nel 2003 è stata elevata al rango di vicariato all’interno del patriarcato latino di Gerusalemme, affidato al padre benedettino Jean-Baptiste Gourion (morto nel 2005), ma certamente ne ha seguito e ne segue tuttora la vita e la testimonianza dalla Gerusalemme di lassù.

 

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