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Conflitto senza vincitori, nuovo spazio alla politica?

Giorgio Bernardelli
26 settembre 2006
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Conflitto senza vincitori, nuovo spazio alla politica?
Dopo oltre un mese di aspro conflitto - tra metà luglio e metà agosto 2006 - le truppe israeliane abbandonano il sud del Libano.

Israele, Anp e Hezbollah alle prese con un difficile dopo-guerra.


Una guerra senza né vincitori né vinti. Costata un prezzo pesantissimo in termini di morti e devastazioni sia nel Sud del Libano, sia nel Nord d’Israele. E conclusa solo grazie a un cessate il fuoco estremamente fragile imposto dalla comunità internazionale. Se, a qualche settimana ormai di distanza, si tirano le somme del conflitto tra Israele e gli Hezbollah che ha insanguinato le cronache di quest’estate, c’è poco da essere ottimisti. È vero, ora tra il confine e il fiume Litani è dislocata una forza di pace Onu vera, e non più lo sparuto drappello di caschi blu dell’Unifil che in questi anni avevano dimostrato tutta la loro impotenza nel prevenire escalation come quella che ha portato all’ultimo conflitto. E poi nella terra di nessuno che gli Hezbollah avevano trasformato in uno Stato dentro lo Stato, ora è tornato l’esercito libanese. Ma resta comunque la sensazione che quello a cui abbiamo assistito sia stato solo il primo round di uno scontro destinato a durare a lungo. Eppure…

Se non fossimo in Medio Oriente non avremmo alcun dubbio nel sottoscrivere questo tipo di analisi. Ma se guardiamo alla storia tormentata di questa regione, ci accorgiamo che la sua evoluzione è stata spesso molto «irrazionale»: quando a noi sembravano esserci tutte le premesse per fare un passo avanti verso la pace se ne sono fatti tre indietro; e quando al contrario l’orizzonte sembrava più chiuso, sono nati gli accordi più importanti. Ovviamente l’irrazionalità di cui stiamo parlando è solo apparente: la storia del Medio Oriente obbedisce a logiche del tutto particolari, che non sempre comprendiamo appieno in Occidente.

In questo senso, allora, oggi varrebbe forse la pena di riflettere su un parallelismo interessante tra la situazione attuale e quella del 1973, alla fine della guerra dello Yom Kippur. Anche quello fu un conflitto per certi versi inaspettato, con i raid arabi che arrivarono a colpire dentro il territorio israeliano e conclusosi con uno stop alle truppe israeliane imposto dalla comunità internazionale. Anche allora, no nostante gli indubbi successi conseguiti sul campo di battaglia, politicamente Israele non uscì vincitore. Anche allora i vertici militari finirono sul banco degli imputati. E dall’altra parte, nonostante i rovesci subiti, anche allora Sadat poté presentarsi con l’aura del «vincitore». Anche allora tutti avrebbero scommesso su una nuova guerra con l’Egitto a breve. E invece ci furono gli accordi di Camp David del 1978, il primo trattato di pace tra Israele e un Paese arabo.

Certo la storia non si ripete mai uguale. Però questo precedente può aiutarci a cogliere una serie di segnali interessanti nel pessimismo di queste settimane.

Ad esempio il significato più profondo delle proteste dei riservisti israeliani che hanno messo nel mirino i vertici politici e militari della Difesa: dietro alle critiche non c’è semplicemente lo sconcerto per le disfunzioni organizzative emerse nei 33 giorni di battaglia. Nel mirino c’è la mancanza di una visione strategica della Difesa. Imprigionati dal conflitto con i palestinesi – è l’accusa – si è perso di vista che il vero nemico è l’Iran, l’altra vera grande potenza regionale del Medio Oriente. Alla fine, così, si è entrati in guerra in Libano e ci si è trovati impreparati.

Si tratta di una posizione che ha una postilla politica nelle grandi manovre interne ormai proiettate sul dopo Olmert. Si è sottolineato giustamente il recupero di consensi di Benjamin Netanyahu. Ma i sondaggi dicono che anche se si votasse oggi il suo Likud resterebbe lontano dalle percentuali dell’era Sharon. Forse allora sarà altrettanto interessante tener d’occhio le parabole di altri due personaggi: Avi Dichter e Ami Ayalon. In comune hanno il fatto di essere ex capi dello Shin Bet, cioè del servizio di sicurezza interno, il ramo dell’intelligence che più a fondo conosce quello che si muove tra Israele e i Territori palestinesi. Dentro Kadima, il nuovo partito già in piena crisi, il ministro degli interni Ditcher è stato il primo ad aprire alla trattativa con la Siria e a manifestarsi possibilista sullo scambio tra i soldati israeliani rapiti e un certo numero di prigionieri palestinesi. Tra i laburisti, invece, Ayalon, da sempre un fautore della soluzione politica del conflitto, ha ormai lanciato la sfida per la leadership al malconcio Amir Peretz. È singolare che proprio due figure così addentro al mondo della Difesa oggi scommettano su questo tipo di approccio. Quasi a sottolineare che il limite vero mostrato da Tsahal, l’esercito israeliano, ha le sue radici nei troppi fronti lasciati aperti dalla politica.

Parallelamente anche in Libano le certezze sono molto meno granitiche di quanto appaiano. Perché ci sono sì le migliaia di famiglie che fanno la coda per ritirare i 12 mila dollari messi a disposizione da Hezbollah per la ricostruzione. Ma ci sono anche voci come quella del mufti sciita di Tiro, Sayyed Ali el-Amin, che ha messo pubblicamente in dubbio i proclami di vittoria dello sceicco Nasrallah e ha detto a chiare lettere che «le relazioni con l’Iran devono passare attraverso lo Stato e non attraverso un partito o un individuo». Anche per questo motivo Nasrallah ha dovuto ammettere che non immaginava una reazione come quella messa in atto da Israele.

C’è poi la situazione interna palestinese. Abu Mazen per la prima volta ha aperto all’ipotesi di una forza di pace Onu da dislocare a Gaza e nei Territori. Eventualità per ora respinta al mittente dal premier Ismail Hanyeh. Ma che potrebbe rivelarsi estremamente concreta se e quando la presenza dei caschi blu dovesse rivelarsi efficace in Libano.

Per ora sono piccoli segnali. E non è affatto detto che maturino. Molto dipenderà da che cosa succederà intorno. Vale la pena ricordare, infatti, che decisiva, per la svolta seguita al 1973, fu l’opera paziente di mediazione compiuta dall’allora segretario di Stato americano Henry Kissinger. Perché è sempre importante arrivare al cessate il fuoco. Ma lo è ancora di più capitalizzare questo risultato ponendosi obiettivi chiari a medio termine. È quanto nelle politiche sul Medio Oriente manca ormai dal naufragio della stagione avviata a Oslo nel 1993. Forse sarebbe ora di voltare pagina.

 

 

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