Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia
Dopo aver vissuto per raggiungere la terra promessa, Mosè la può solo contemplare da lontano. È un'apparente sconfitta che in realtà è completo abbandono in Dio.

La vittoria di chi ha perso tutto

Paolo Curtaz
11 agosto 2006
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Fatico a salutare Mosè e, prima di affrontare le avventure dei re d’Israele, voglio ancora commentare uno dei testi meno conosciuti della Bibbia: la fine ingloriosa del liberatore di Israele. In questi mesi ho riflettuto brevemente insieme a voi sul percorso interiore di Mosè: da giovane arrogante e violento, deciso a liberare il suo popolo dall’alto della sua posizione privilegiata, il Principe d’Egitto è costretto a fuggire e a rifugiarsi nel privato, scottato dalla delusione, finché la rivelazione del nome di Dio lo spinge alla liberazione del popolo e alla consegna delle dieci parole. Il grande Mosè, l’immenso condottiero masticato dalla vita, dalla passione per il popolo, dalla vicinanza bruciante con Dio, non metterà piede nella Terra promessa, la vedrà solo da lontano, dalla parte giordana del Mar Morto. Così finisce Mosè: senza godere di ciò che ha desiderato allo spasimo. Peggio: l’autore annota che non si è conservata memoria del luogo di sepoltura del più grande ebreo della storia di Israele! Mosè è pronto, ormai, consumato: ha dato tutto, ma proprio tutto per seguire l’affascinante «Io-sono». Non gli è rimasta neppure la gloria o la memoria, il suo corpo è sepolto da qualche parte nel deserto, senza mausolei, senza lapidi, senza monumenti. Davvero Mosè, ora, è libero. Libero dall’immagine di sé, libero dai risultati conseguiti, libero anche dal suo sogno, libero dalla fragile illusione di poter essere ricordato e venerato come il più grande condottiero di Israele. Il liberatore da liberare ci insegna davvero a mettere Dio e lui solo al centro, ci insegna la difficile arte del distacco interiore, che non è mai ascetico sforzo, ma progressivo abbandono in Dio.

Oggigiorno s’insiste continuamente sul risultato: nell’ambito affettivo, nel lavoro, della società, sei ciò che sei riuscito a diventare, sei ciò che hai prodotto. A volte, purtroppo, anche nella Chiesa, rischiamo di assorbire la stessa aria malsana, usando categorie inappropriate, statistiche, analisi di settore, per misurare l’efficacia della nostra pastorale. Mosè ci indica un percorso più arduo: una vita si misura dalla capacità che ha avuto di mettersi alla ricerca della libertà interiore, inseguendo Dio.

Il testo in esame contiene un’interpretazione splendida che recepisco dal mondo ebraico (cfr Paolo De Benedetti, La morte di Mosè e altri racconti, Brescia 2005): la nostra traduzione dice che Mosè morì «secondo l’ordine (la parola) del Signore». Una traduzione letterale, più birichina, traduce: «morì per bocca del Signore» e, meglio, «sulla bocca del Signore». I rabbini commentano questo brano dicendo che Mosè morì baciato in bocca da Dio stesso, il gesto più intimo, più misterioso, più straordinario, che Dio riserva solo ai grandi santi. Mosè, liberatore da liberare, dopo avere condotto un fragile gruppo di schiavi verso la libertà e l’esperienza di Dio, riceve ora il premio definitivo: l’abbraccio caloroso del Dio che ha contribuito a far conoscere. Anche a noi.

Il testo biblico di riferimento di questa riflessione è Deuteronomio 34, 1-12.

(L’autore è sacerdote della diocesi di Aosta e curatore del sito Internet www.tiraccontolaparola.it)

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