I coloni asserragliati nella sinagoga di Kfar Darom. La polizia israeliana, disarmata, che li porta via di peso. Le speranze di un nuovo inizio in una regione tormentata come il Medio Oriente. Esattamente un anno fa passava tutto questo sui nostri schermi. Dopo venti mesi di polemiche e una sola settimana di operazioni, il 22 agosto 2005 si concludeva l’evacuazione degli insediamenti di Gaza. E pochi giorni dopo, senza grossi patemi, i coloni venivano fatti sgomberare anche dai quattro piccoli insediamenti intorno a Jenin, in Cisgiordania.
La si definì «una finesta di opportunità» per la Terra Santa. Si ricamò sul «vecchio generale» Ariel Sharon che ora voleva la pace. Come è andata a finire? Nel momento in cui scriviamo i blindati israeliani sono tornati nel nord e nel sud della Striscia di Gaza. Un soldato dell’esercito con la stella di Davide, Gilad Shalit, è stato rapito da un commando palestinese. I colpi dell’artiglieria si susseguono. Come i lanci dei missili Qassam verso Israele. I raid aerei israeliani vanno a colpire i ponti per impedire gli spostamenti da una parte all’altra della Striscia. È vero, i coloni non ci sono più, ma tutto il resto ricalca drammaticamente un copione già visto.
Non c’è da nasconderselo: un anno dopo il ritiro a Gaza il bilancio è tutt’altro che incoraggiante. Le speranze sono durate poco. E la fiammata seguita al rapimento di Shalit è stata solo la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso ormai colmo da tempo. Già in autunno le difficoltà nella gestione politica della situazione a Gaza erano apparse chiare. Poi erano arrivate le elezioni palestinesi del 25 gennaio con la vittoria di Hamas. Una vittoria figlia del ritiro unilaterale di Sharon? C’è chi lo sostiene, puntando il dito contro Israele che avrebbe indebolito Abu Mazen e il suo partito, Fatah, rifiutando la strada della trattativa. Ma a indebolire Fatah ci aveva già pensato Fatah stesso e ormai da anni. Perché dietro il voto dato ad Hamas c’è stata soprattutto la sfiducia in una leadership ormai logorata da inefficienza e corruzione. Il resto lo conosciamo: le tre condizioni poste da Israele e dalla comunità internazionale al nuovo governo palestinese (riconoscimento di Israele, rispetto degli accordi, rifiuto della violenza). Il durissimo boicottaggio economico scaturito dalla mancanza di risposte da parte di Hamas. La vera e propria guerra per bande tra le diverse fazioni palestinesi.
Sharon aveva lanciato il ritiro da Gaza puntando sul tema della sicurezza: andandocene – sosteneva – la tensione diminuirà. È successo esattamente il contrario. I lanci di missili Qassam contro la vicina cittadina israeliana di Sderot sono aumentati. E, dall’altra parte, senza la presenza dei coloni sul campo, l’esercito israeliano si è sentito libero di reagire con le armi pesanti. Sono diventati più frequenti i raid aerei. E su Gaza oggi spara anche l’artiglieria. Risultato: i morti palestinesi tra i non combattenti sono aumentati rispetto anche a quando nei campi profughi entravano i blindati.
La conseguenza più grave di tutto questo sono le condizioni di vita della gente comune a Gaza. Già un anno fa questo piccolo lembo di terra sovrappopolato era una delle aree più depresse del pianeta. Dodici mesi dopo tutte le statistiche dicono che la situazione è ulteriormente peggiorata. L’ultimo rapporto del Programma alimentare mondiale, datato 16 giugno (cioè prima della crisi scatenata dal rapimento del soldato israeliano), spiegava che nonostante un chilo di pollo costasse ormai 3 dollari contro i 3,7 di solo qualche mese prima, nei mercati di Gaza restava invenduto. A causa degli stipendi non pagati per via del blocco economico – si aggiungeva – la maggior parte delle famiglie si nutre ormai di pane, frutta e verdura (pomodori e patate). Ma dopo il bombardamento della principale centrale elettrica di Gaza (con il conseguente blocco delle pompe che dovrebbero fornire l’acqua) anche gli ortaggi cominciano a scarseggiare. Dei miglioramenti economici auspicati un anno fa, dunque, neanche l’ombra: l’apertura solo a singhiozzo e per brevi periodi del valico di Karni ha ucciso sul nascere ogni possibilità di far diventare un volano di sviluppo le serre lasciate libere dai coloni. La costruzione del porto è rimasta sulla carta. Come pure i convogli che, stando all’accordo strappato in novembre dal segretario di Stato americano Condoleeza Rice e fortemente voluto dall’ex presidente della Banca mondiale Paul Wolfenshon, avrebbero dovuto permettere una prima forma embrionale di collegamento tra Gaza e la Cisgiordania. Passo iniziale per progetti più ambiziosi e stabili: una linea ferroviaria, secondo l’ipotesi avanzata da Israele; una strada sempre aperta e percorribile, secondo il progetto dell’Autorità palestinese. In ogni caso una grande infrastruttura in grado di collegare la Cisgiordania al mare e fare così di Gaza un motore di sviluppo per tutti i Territori palestinesi. Un anno fa si parlava anche di valorizzare in chiave turistica le spiagge, una delle risorse più interessanti della Striscia. Di tutto questo non è successo nulla. Non era successo ancora nulla a gennaio. E tutto si è ulteriormente bloccato con la vittoria di Hamas alle elezioni.
Lo stesso numero complessivo dei coloni oggi è maggiore rispetto a dodici mesi fa. I dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano dicono che il 31 dicembre 2004 nei Territori (Gaza compresa) vivevano 243.900 israeliani; il 31 dicembre 2005, nonostante gli 8.800 evacuati in estate da Gaza, i coloni erano diventati 246.100. Come è possibile? Semplice: in Cisgiordania continuano a crescere. E non solo per una naturale evoluzione demografica di una popolazione giovane e prolifica.
Persino gli ex-coloni che avevano accettato volontariamente di andarsene dalla Striscia, intascando così i sussidi messi a disposizione dal governo, sono scontenti. La logistica dell’operazione non ha funzionato: i nuovi villaggi che, in territorio israeliano, avrebbero dovuto sostituire gli insediamenti, sono ancora baraccopoli.
È stato dunque un fallimento il ritiro da Gaza? Nonostante tutte queste premesse la risposta è no. Certo, molti oggi sostengono che sia stata una mossa affrettata. Ma che qualcosa di importante comunque sia cambiato, che una pagina in Medio Oriente sia comunque stata voltata, lo hanno dimostrato con chiarezza le elezioni tenutesi a marzo in Israele. Un voto in cui non è affatto facile dire chi ha vinto: Olmert è uscito molto più debole di quanto sperava, i laburisti non sono andati al di là di una dignitosa tenuta, forze come il Partito dei pensionati sono diventate determinanti. Una cosa però è uscita molto chiara dalle urne: qualcuno ha perso. Hanno perso i coloni, ha perso l’idea dell’Eretz Yisrael, il Grande Israele. Oggi la stragrande maggioranza degli israeliani non si chiede più se sia giusto tenere la Cisgiordania. La domanda su cui si discute è: qual è il modo migliore per andarcene almeno dalle zone più densamente popolate dai palestinesi, senza compromettere la nostra sicurezza? Domanda drammatica, come mostrano le tensioni di queste ultime settimane. Ma quello compiuto da Sharon, nel bene o nel male, è comunque un passo da cui non si tornerà più indietro: con Gaza ormai è stato rotto un tabù.
Per quattro anni, dal 2000 al 2004, la situazione in Terra Santa è rimasta drammaticamente bloccata. Gaza, insieme all’uscita di scena di Yasser Arafat, ha rimesso tutto in movimento. Certo, quando la storia si muove i processi non sono mai indolori. Ma come un anno fa era sbagliato illudersi che il ritiro avrebbe risolto d’incanto tutto, oggi non dobbiamo cadere nella trappola opposta. È vero, la situazione nei Territori palestinesi è drammatica. Ma, da una parte come dall’altra del muro, è forte la percezione che così non si può più andare avanti. Basterà per arrivare a una svolta? Nessuno oggi può dirlo. Ma sarebbe criminale continuare a escluderlo.