Nel maggio 2004 padre Pierbattista Pizzaballa, oggi quarantunenne, assumeva la responsabilità di Custode di Terra Santa.In occasione di un recente colloquio gli abbiamo chiesto di condividere con noi qualche impressione su questo primo biennio. Dalla sorpresa per la nomina, al gusto per l'incontro con i pellegrini, passando per le relazioni, anche informali, con i capi delle altre Chiese cristiane a Gerusalemme. Senza tacere gli aspetti più faticosi di questa esperienza.
Nel maggio 2004 fra Pierbattista Pizzaballa, oggi quarantunenne, assumeva la responsabilità di Custode di Terra Santa. Durante un recente colloquio gli abbiamo chiesto di condividere con noi qualche impressione su questo primo biennio.
Padre Pizzaballa la sua nomina per lei è stata una sorpresa o qualcosa a cui l’avevano preparata?
Non era assolutamente attesa da parte mia. Da noi prima delle nomine si fanno due consultazioni tra i frati. Il risultato della prima è pubblico, il secondo viene segretato e inviato a Roma, che avvia tutte le sue indagini e valutazioni. Dopo il primo giro di consultazioni, ho capito di essere «a rischio». Per me è stata una grande sorpresa perché non ero un membro del governo precedente. Facevo una vita abbastanza marginale rispetto alla Custodia. Infine c’era il fattore età: avevo 38/39 anni. Il Custode è normalmente una persona più anziana.
Come mai una comunità la cui età media non è molto bassa si è orientata verso un candidato giovane?
Non lo so. Forse c’era desiderio di rinnovamento. Magari poi quando si arriva ai cambiamenti reali si ha un po’ più paura, ma il desiderio di cambiare c’è. Devo anche dire che la nostra è anche una comunità internazionale dove il fattore delle nazionalità conta. Quando parliamo della Custodia, pensiamo subito a Gerusalemme, che tutto sommato è un contesto conservatore, ma della Custodia fanno parte anche le comunità più periferiche. Penso che proprio quelle abbiano influito molto.
È stato facile dire di sì?
Si è discusso e io ho pensato a lungo se dire sì o no. L’obbedienza non è soltanto aderire a quello che comandano i superiori. Se la comunità ti sceglie in maniera così evidente e volontaria, onestamente, se non hai serie motivazioni per dire di no, non ha senso rifiutare. Devi accettare in spirito di servizio.
Lei, forse più di altri suoi confratelli, viene da un’esperienza di lavoro con la componente ebraica della società. Col suo mandato è cresciuta l’attenzione culturale da parte della Custodia verso il mondo ebraico?
Per tradizione la Custodia è sempre stata vicina al mondo arabo. È un dato che fa parte della storia e che rimarrà sempre nel nostro Dna. Oltretutto una parte dei nostri frati è di origine araba. È anche vero, però, che in questi due anni – anche per la mia conoscenza della lingua – il contatto con gli israeliani è stato più facile. Ciò ha aiutato molto, ma ha anche creato dei fraintendimenti, come è inevitabile che succeda in Terra Santa, dove ogni parola e ogni virgola può essere fraintesa o interpretata diversamente dalle intenzioni di chi la pronuncia.
L’interazione con il mondo ebraico è importante, dal momento che gran parte delle nostre attività si svolge in territorio di Israele. Per quanto riguarda il dialogo, se ne parla molto ma si fa poco. Non si sa bene in cosa consiste, come dev’essere fatto, chi lo fa. È un’attitudine che dev’essere costruita nel tempo.
Sul piano delle scelte operative una delle prime decisioni che ho preso è che i giovani religiosi in formazione studino almeno una delle tre lingue parlate nel nostro contesto (arabo, ebraico e greco). La prospettiva dell’inserimento in ambito israeliano è dunque parte integrante del processo formativo. Abbiamo in corso anche iniziative concrete di avvicinamento con attività e istituzioni culturali e amministrative dello Stato di Israele per risolvere i problemi e studiare insieme strategie comuni di lavoro, ad esempio nel campo del turismo e del pellegrinaggio.
La sua nuova responsabilità l’ha messa in una posizione più esposta su due versanti: quello del contatto con i pellegrini e quello dei rapporti ecumenici con le altre Chiese presenti nei Luoghi Santi. Proviamo a parlarne.
In questo il mio lavoro è cambiato totalmente. Prima dovevo badare a una piccola parrocchia. Adesso la prospettiva e il tipo di vita sono del tutto diversi.
Il contatto con i pellegrini è molto bello. Ogni giorno accolgo al convento di San Salvatore uno o due gruppi. L’anno scorso ho ricevuto migliaia di pellegrini, prevalentemente italiani, ma non solo. L’incontro è sempre molto stimolante. Io parlo e loro fanno domande. Molti sono giovani ed è interessante sentire come hanno percepito il pellegrinaggio e l’incontro con la realtà della Terra Santa. Tra i temi ricorrenti ci sono quello del dialogo e dello scandalo della divisione delle Chiese. Altra questione che ritorna spesso è la pace. I giovani faticano a comprendere perché sia tanto difficile incontrarsi e parlarsi tra israeliani e palestinesi.
La cosa che più mi colpisce, in positivo, è il desiderio di conoscere meglio la Bibbia e il Vangelo. In genere i pellegrini, anche i giovani, comprendono di sapere troppo poco e questo è un aspetto molto bello. Io dico sempre che si capisce se un pellegrinaggio è stato fatto bene se alla fine uno ha più domande che risposte. Quando ci si pone un sacco di domande, allora vuol dire che il pellegrinaggio è servito.
Veniamo ai rapporti con le altre Chiese.
Qui l’incontro è soprattutto, anche se non esclusivamente, di tipo istituzionale, con i responsabili delle altre comunità. Non si tratta solo di relazioni formali. L’aspetto formale tuttavia ha la sua importanza. Siamo in Oriente e dobbiamo spogliarci da un certo nostro approccio occidentale un po’ snob. Il modo di contattare e di dialogare in Oriente è molto diverso che da noi. Le autorità religiose hanno un loro ruolo dentro il quale occorre stare. Se non ci stai dentro scandalizzi e non vieni compreso. Il «rito del caffè» è molto importante. C’è tutta una gerarchia da tenere in conto. Esemplifico: se il patriarca greco ortodosso nelle fare le visite previste dal protocollo decide di recarsi prima di tutto dal Custode, questo va letto come un gesto di gentilezza e di attenzione. Conta anche il numero dei membri della delegazione… se vengono in dieci, in venti o in cinque. Sono cose che segnano il tipo di relazioni tra le Chiese e rappresentano anche un modo pubblico per incontrarsi e conoscersi. Ci si potrebbe anche limitare alla formalità, non andando oltre le frasi di circostanza, che pure si devono dire. Invece, dopo le frasi di circostanza ci si siede e si comincia a parlare e a scambiarsi punti di vista anche su problemi concreti o su documenti da stilare insieme. Non partecipare, non scambiarsi le visite ufficiali, è uno sgarbo. Ma non vi è solo questo. Con i capi delle Chiese, i patriarchi, ogni tanto andiamo a mangiare insieme, soltanto noi, per parlare con maggiore libertà – fuori dalle occasioni formali – di problemi e strategie comuni. Infine bisogna ricordare che al Santo Sepolcro i frati e i monaci ortodossi vivono letteralmente sotto lo stesso tetto e condividono gli stessi spazi: imparano a conoscersi, stimarsi o non stimarsi così come avviene in un condominio.
Sul versante della sua esperienza umana cosa significa questo nuovo ufficio.
È cambiato tutto. Prima avevo uno stile di vita più semplice: con molto tempo per la preghiera, il lavoro, la ricerca. Adesso, per cominciare, non ho più privacy. Se voglio uscire a cena con qualcuno devo chiedere al segretario di mettere l’appuntamento in agenda o di verificare se sono libero o no. Il mio ufficio comporta poi una grande solitudine. È inevitabile: se vuoi mantenerti libero, soprattutto in un contesto tanto piccolo, devi anche essere solo. Infine ti accorgi – e forse è umano – che quando hai responsabilità i rapporti interpersonali che già avevi cambiano. Spesso ne soffri e a volte sei costretto anche a deludere le persone a cui vuoi bene o di cui hai stima. Devi metterlo in conto.
Lei viaggia moltissimo. Racconta della Terra Santa alle altre Chiese ma ha anche modo di vedere l’esperienza di quelle Chiese. Ne racconta ai frati quando torna a casa?
Sì, ne parlo e i frati dimostrano interesse. Devo ammettere, però, che i viaggi sono spesso un succedersi di appuntamenti istituzionali. Noto molto interesse sulla Terra Santa e ho capito in questi due anni come noi non siamo preparati in modo professionale a presentare la nostra realtà, a farla conoscere. Per questo sto cercando di investire molte energie e risorse su questo versante. È importante. La Terra Santa non può stare da sola. Sin dai tempi della prima colletta indetta dall’apostolo Paolo la nostra vita a Gerusalemme ha senso se, oltre che essere radicata nel territorio, è legata profondamente a tutte le Chiese del mondo.
Avete i Commissari di Terra Santa in molti Paesi del mondo. In che senso lei dice che non siete preparati?
I Commissari sono legati a un modello classico e tradizionale di informazione sulla Terra Santa.
A novembre terremo a Gerusalemme il loro primo Congresso internazionale. Ci aspettiamo che sia un’occasione di conoscenza reciproca. È la prima volta che ci troviamo tutti insieme. Fin qui vi sono state solo conferenze per gruppi linguistici. Penso che sia interessante per un Commissario italiano sapere cosa fanno gli statunitensi e così via. Potremo scoprire come lavora il Commissario del Giappone o come i frati di Hong Kong parlano della Terra Santa in Cina. Inoltre dovremo fare il punto, contarci e vedere chi siamo e dove siamo. Renderci conto della situazione così come la vediamo noi dalla Custodia e come la vedono i Commissari. Finora esiste un deficit di comunicazione. Se vogliamo che i Commissari siano i nostri rappresentanti nel mondo bisogna che abbiano un filo diretto con noi. Si tratterà anche di studiare nuove strategie di comunicazione perché il mondo cambia e il compito del Commissario non è solo di raccogliere risorse, ma anche di informare sulla Terra Santa. Se la gente non sa cosa accade in Terra Santa nemmeno può contribuire in maniera concreta.
Dopo due anni di guida della Custodia c’è qualcosa che le sgorga dal cuore con particolare intensità?
Vivo con un po’ di sofferenza il rapporto con i frati. All’inizio del mandato mi ripromettevo di incontrarli e ascoltarli. Molti non li conoscevo. Devo ammettere che questo ambito è più faticoso di quello che pensavo, anzitutto perché i frati sono sparsi in diversi Paesi ed è difficile raggiungerli. Poi perché col passare del tempo ti accorgi che ci sono visioni e prospettive diverse che sei chiamato a rispettare e capire. Particolarmente delicati i temi della formazione e della comunicazione tra noi. Il dialogo deve cominciare anzitutto qui e sento di dovere investire di più su questo versante.