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Miraggi per liceali: una cella israeliana

08/06/2006  |  Territori Palestinesi
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Miraggi per liceali: una cella israeliana
Betlemme, maggio 2006. Giovani palestinesi alla cerimonia di consegna del diploma di scuola superiore. (foto Cts/Mab)

Pare che che la gattabuia non faccia più paura. Anzi, non pochi giovani palestinesi vanno a cercarsi la prigione come una medaglia da appuntarsi al petto. Anche a costo di qualche rischio. Da detenuti possono continuare a studiare e magari conseguire il diploma, mentre la loro famiglia percepisce un sussidio dall'Autorità Palestinese. Una storia come altre, quella di Sharif, raccontata dal quotidiano francese Le Figaro.


(a.g.) – Per i giovani palestinesi ci sono notti in cui i sogni finiscono dietro le sbarre. Quelle di una prigione israeliana non sono mai state così ambite come negli ultimi mesi.

Una cella angusta è il luogo d’evasione più desiderato da un gran numero di liceali nei Territori occupati. Piuttosto che lottare ogni giorno con una miseria disarmante e sfuggire ai raid dell’esercito israeliano, meglio arrendersi alle comodità di quattro mura ostili.

Perché farsi imprigionare ha i suoi vantaggi, come racconta anche un lungo reportage del quotidiano Le Figaro pubblicato nei giorni scorsi.

Il giornale francese riferisce la storia di Sharif (19 anni) che nel marzo 2005 ha rischiato di essere ucciso, pur di farsi arrestare. Con il suo migliore amico, ha costruito una bomba molotov e simulato un falso attacco alla barriera militare israeliana di Hawara, che controlla l’entrata di Nablus. A Sharif non mancavano le ragioni per prendere questa pericolosa decisione. Aveva messo nel conto anche la scuola: gli studenti dei Territori in prigione hanno la possibilità di strappare il certificato di maturità. E soprattutto avrebbe avuto la forza economica per aiutare i familiari: ogni mese l’Autorità palestinese, garantisce ai suoi prigionieri in Israele 800 sheckels (160 euro).

Sharif viene dal campo profughi di Balata: qui ci sono circa 23 mila palestinesi ammassati in uno spazio molto ristretto. Suo padre è operaio, ma dall’inizio della seconda Intifada, nel settembre 2000, non lavora più. A casa vivono in dodici, stipati in un piccolo bilocale. Sopravvivere è il verbo che declinano a fine giornata. La paura di morire nel tentare di farsi arrestare non è inferiore a quella che si prova a Balata ogni giorno: lì le incursioni dell’esercito israeliano sono molto frequenti.

Così, davanti ai soldati da cui si son fatti catturare Sharif e il suo amico hanno messo in scena anche una prolungata ribellione per esser sicuri di rimanere a lungo in prigione. I militari li hanno pestati per farsi dire a quale gruppo armato appartenessero. Non riuscivano a pensare che fosse una loro iniziativa spontanea. Una volta rinchiusi, c’è stata nei ragazzi la sensazione di aver raggiunto l’obiettivo. Quando però è arrivata la condanna a 10 mesi nel carcere di Meghiddo, dopo la detenzione a Salem, Sharif ha iniziato a rimproverarsi quel gesto.

Oggi, libero, non lo rifarebbe più. Certo gli rimane dentro la soddisfazione del diploma, dell’aiuto economico alla famiglia e anche di un gruzzolo per iscriversi all’università. Persino di una certa forma di libertà, perché come dice lui stesso, non aveva mai viaggiato prima, non conosceva la Palestina e i palestinesi di altre città. Ma adesso implora i suoi coetanei di non seguire il suo esempio: «Rischiano di farsi uccidere e torturare. E poi l’Autorità non ha più soldi per pagare i prigionieri». Ma Sharif è preoccupato: «Loro non vogliono ascoltarmi».

Secondo Youssef Hashash, direttore del Comitato popolare del campo di Balata, una ong locale, «in un anno si sono fatti arrestare circa 60 giovani del luogo. E dopo il blocco imposto al governo Hamas, la disperazione è tale che pure gli adulti fanno lo stesso». Ci sono padri preoccupati per figli che le provano tutte per entrare in carcere.

L’esercito israeliano del resto ha ormai capito il trucco e quando si accorge di questi finti attacchi rispedisce al mittente i bari. «La prigione non è un asilo», sbotta con Le Figaro un ufficiale israeliano di Nablus.

Ma il fenomeno si alimenta anche di altre motivazioni. Sami Douglas, presidente di un’associazione di aiuto psicologico di Nablus spiega al quotidiano transalpino come i prigionieri, al pari dei martiri, stiano diventando degli eroi nella società palestinese. Pertanto i genitori non sono pronti a scommettere che i loro figli non ripeteranno in futuro azioni ancora più rischiose.

Non è solo un gioco di parole: molti giovani palestinesi sono prigionieri di un sogno. Quello di essere imprigionati.

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