Il governo egiziano ha emanato una direttiva per regolamentare gli appelli alla preghiera urlati dagli altoparlanti delle migliaia di moschee. Anche sulle rive del Nilo, ormai, emerge una sensibilità ai temi dell'inquinamento acustico. Nessuno pretende il silenzio totale. Ma che almeno i minareti si sincronizzino, quello sì.
(d.c./agenzie) – In Egitto, al Cairo, un esercito di quattromila muezzin urla tramite altoparlanti l’appello alla preghiera, cinque volte al giorno, aggiungendo decibel su decibel al già insostenibile inquinamento acustico della città. Alcuni muezzin, per far udire meglio la loro performance, cominciano di proposito in anticipo; altri attaccano in ritardo perché arrivano sul lavoro all’ultimo momento; in ogni caso, ogni appello può durare anche mezz’ora, considerando che ognuno di questi professionisti della preghiera aggiunge alcune esortazioni personali e considerazioni di carattere politico o religioso, fino a comporre una sorta di predica cantilenata.
Ecco perché la protesta della popolazione è salita fino al governo, che ha pensato bene di porre un freno al frastuono tramite l’iniziativa recente del suo ministro per gli Affari religiosi, Mahmud Zaqzuq: si tratta di imporre un unico invito alla preghiera diffondendolo via radio a tutte le moschee, scegliendo in precedenza tramite concorso le «voci» ufficiali secondo «criteri musicali» (pare infatti che la maggior parte dei muezzin sia piuttosto stonata).
La decisione, recente, non è passata senza polemiche. In particolare, si accusa il governo di voler unificare l’invito per controllarne i contenuti (specialmente politici) e di mandare i muezzin ad ingrossare la schiera dei disoccupati, che in Egitto supera il 10 per cento della popolazione.