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Così la pensa lo scrittore Hassad Daoud.

«La primavera di Beirut? Rischia il fallimento»

Manuela Borraccino
17 maggio 2006
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«La primavera di Beirut? Rischia il fallimento»
Nella capitale del Libano la gente riempie le piazze durante la «primavera di Beirut» del 2005.

«Stiamo assistendo al collasso di quella che era stata salutata come "la primavera di Beirut". Quel milione di persone che scese nella piazza della Libertà rivendicando l’indipendenza, il ritiro delle truppe siriane, il diritto del Libano all’autodeterminazione. Ecco in quel momento noi pensammo che stavamo diventando un unico popolo, una nazione, un Paese unito. Ma purtroppo quell’unità non è durata. E ora il sogno sta svanendo».

Non potrebbe essere più lucido, lo scrittore libanese Hassan Daoud, nel descrivere quel che sta accadendo in Libano a poco più di un anno dal tragico assassinio dell’ex primo ministro Rafik Hariri, il 14 febbraio 2005, e mentre si avvicina il primo anniversario della morte del giornalista Samir Kassir, ucciso con un’auto-bomba il 2 giugno 2005 per aver ispirato la sollevazione popolare che portò al ritiro delle truppe di occupazione siriana.

Daoud (56 anni) si è laureato in letteratura araba e ha svolto attività giornalistica durante la guerra civile che per 15 anni ha insanguinato il piccolo Paese mediorientale (1975-90). Scrittore e saggista su argomenti di carattere politico e sociale ha pubblicato due volumi di racconti e novelle. Attualmente è caporedattore di Nawafez, («Finestre»), il supplemento culturale del quotidiano di Beirut Al Mustaqbal .

Il 5 maggio scorso, a Roma, ha preso parte a un convegno organizzato in Campidoglio dalla testata elettronica Babelmed (www.babelmed.net). Tema: Islam e Occidente nel Mediterraneo al di là delle rappresentazioni.

«Oggi – ha osservato lo scrittore – quegli studenti, quelle casalinghe, quei liberali scesi in piazza nel 2005 hanno dovuto rendersi conto, ancora una volta, che i libanesi non possono decidere per il loro futuro: perché a decidere sono ora la comunità internazionale, ora la Siria, ora gli altri Paesi della regione. Da mesi e mesi vanno avanti i colloqui fra i capi delle varie comunità che compongono la nazione, ma questi colloqui non portano a nulla perché c’è divisione e le decisioni sul Libano le prende una minoranza esterna al Paese».

Daoud fa riferimento a quanti accolsero con scetticismo la nascita dello Stato libanese dalle ceneri del protettorato francese sulla Siria e sostiene: «Nulla è cambiato dal 1943 a oggi. Chi firmò l’accordo di allora definì il Libano "un Paese di minoranze perseguitate". Forse dopo 60 anni siamo rimasti gli stessi».

A pochi mesi dalla pubblicazione dell’inchiesta Onu sull’assassinio di Hariri, ispirato dai servizi segreti siriani, Daoud auspica che i suoi connazionali ritrovino l’unità perduta: «I cittadini libanesi devono confrontarsi e decidere che dobbiamo smetterla con questa guerra fra gruppi, che dobbiamo essere uniti. Se i capi delle comunità hanno fallito, devono farsi da parte e lasciare il posto a chi è più saggio di loro».

Il Libano è Paese di primario interesse strategico e roccaforte del cristianesimo in Medio Oriente. Su 4 milioni di abitanti il 45 per cento sono cristiani maroniti e il 55 per cento musulmani sunniti, sciiti e drusi.

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