Aveva appena finito di parlare a Milano il vescovo di Tunisi, monsignor Maroun Lahham, sul maggiore equilibrio offerto dai Paesi del Maghreb rispetto a quelli del Machrek, l’Oriente arabo, nella crisi delle vignette satiriche su Maometto, quando è giunta la notizia dell’assalto al consolato italiano a Bengasi. Così è risultato chiaro che, a est come a ovest nel mondo arabo e islamico, c’è chi cerca di cavalcare la «rivolta» dei musulmani. Uno scoppio di violenza, quello di Bengasi, forse scappato di mano al regime di Muammar Gheddafi. Una piazza calda, aizzata contro l’unica rappresentanza occidentale ad uso delle telecamere di al-Jazeera e al-Arabiya, ha così offerto a Gheddafi l’occasione di essere riammesso nel novero musulmani «ortodossi»
Quelli con l’islam radicale sono legami difficili da recidere, toccano nel profondo la società libica, anche se la «Guida della rivoluzione» ha cercato in passato di allentarli. In questo è consistita la cosiddetta «soluzione libica», un cambio morbido di rotta politica: abbandono delle ambizioni nucleari e fine del sostegno ai movimenti islamici radicali di mezzo mondo. Aperture, queste, che sono valse, nel 2003, la revoca dell’embargo economico internazionale provocato dal caso Lockerbie e la risoluzione 748/1992 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, con la quale la Libia è stata depennata dalla lista degli Stati canaglia. Gheddafi ha inoltre promesso all’Italia di impegnarsi a governare l’immigrazione clandestina verso l’Europa. In cambio ha ottenuto di rimanere in sella, giocando fra Medio Oriente e Occidente, con un considerevole patrimonio di risorse naturali da mettere sul tavolo: la Libia è il diciassettesimo Paese produttore di greggio con 1.600 barili al giorno e per riserve è tra i primi dieci del mondo.
Forse i fatti di Bengasi marcano una sorta di passo del gambero, o semplicemente sono dettati dal bisogno di non giocarsi il consenso interno. Forse sono una strizzata d’occhio a quell’asse Damasco-Teheran che può ora vantare un’appendice in terra palestinese, dopo la vittoria elettorale di Hamas. In ogni caso segnano, anche in Libia, un punto in favore dell’islam politico.
Nel Machrek, la Siria di Assad è ancora titubante tra un atteggiamento «alla libica» e uno «all’irachena». Il ritiro delle truppe siriane dal Libano, alla fine dello scorso aprile, ha privato Damasco di una preziosa carta. Anzi, la Siria è sprofondata in un isolamento internazionale senza precedenti a causa della probabile implicazione nell’assassinio del premier libanese Rafic Hariri. Un accerchiamento che Assad tenta di rompere consolidando l’alleanza con l’Iran di Ahmadinejad e cavalcando – anche lui – la protesta musulmana contro le vignette. In un Paese dove niente si muove senza il via libera del governo, centinaia di manifestanti hanno così dato fuoco all’ambasciata della Danimarca.
Il copione è stato ripreso, pochi giorni dopo, a Beirut, Libano: decine di infiltrati – molti dei quali siriani e palestinesi – hanno bruciato la sede diplomatica danese nel quartiere cristiano di Achrafieh, e preso a sassate diverse chiese. La provocazione aveva lo scopo di accendere la miccia di un nuovo conflitto religioso. Un pericolo, per fortuna, sventato: gli abitanti di Achrafieh si sono astenuti da ogni risposta violenta. Ma potrà durare questo atteggiamento in presenza di leader disposti a cogliere ogni occasione pur di perseguire i propri fini?