«Verranno molti popoli, e diranno: "Venite, saliamo verso il monte del Signore, verso la casa (il Tempio) del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare sui suoi sentieri, perché da Tzion uscirà la Torah (l’insegnamento divino rivelato) e la parola del Signore da Gerusalemme"» (Is 2, 3). Con queste parole nel libro del profeta Isaia si annuncia il convergere dei popoli «alla fine dei giorni» verso Tzion (Sion), il monte ove sorge la città santa, Gerusalemme, luogo dal quale «uscirà» l’insegnamento divino rivelato sia per il popolo di Israele che per tutte le genti. Gerusalemme viene così compresa come il luogo particolare ove Dio ha deciso di «far abitare il Suo Nome» (Sal 132, 13) e dal quale deve diffondersi la Torah rivelata al Sinai in prospettiva universale: un commento rabbinico spiega infatti che durante la teofania sinaitica la voce del Signore si è divisa in settanta lingue affinché tutti i popoli potessero udirla (Shemot Rabbah, V). Se il Sinai costituisce il luogo e il momento in cui la Torah entra nella storia come dono per la santità della vita, lo spazio in cui il medesimo si realizza e da cui deve mostrarsi e propagarsi in prospettiva universale è Tzion: è qui infatti che il popolo di Israele può vivere i precetti nella loro pienezza santificando la «Terra promessa» ed è da questo luogo che ognuno può attingerne la luce, dalla città santa e madre di tutti i popoli (Sal 87, 1-7) destinata ad essere una benedizione per le genti.
Nella tradizione ebraica si sottolinea che Gerusalemme è il centro del mondo perché da qui, e in particolare dalla zona del Tempio, sarebbe cominciata la creazione e sarebbe uscito il primo raggio di luce che ha illuminato tutta la terra. A questo luogo sono quindi ricondotti tutti i momenti più importanti della storia biblica e dal medesimo, dalla Città di Dio, si attende l’inizio dei «tempi messianici». La profezia di Isaia si colloca pertanto in questo orizzonte nel quale deve realizzarsi la benedizione in Abramo promessa da Dio per «tutte le famiglie della terra» (Gen 12, 3), la quale deve realizzarsi nel rispetto dell’universalismo biblico, cioè del rapporto fra universale e particolare: non si chiede infatti ai popoli di diventare come Abramo, cioè tutti ebrei, ma di benedirsi in lui riconoscendo nel suo popolo un segno di benedizione per le genti che a Tzion si deve mostrare in maniera particolare. Il nome stesso della città santa, in ebraico Jerushalajim che contiene la radice di shalom (pace, benessere, completezza), ha una desinenza «duale» che la tradizione rabbinica interpreta in vari modi (anche nel senso di Gerusalemme sia del cielo che della terra), e che può essere messa in relazione al fatto che la Torah è stata data al Sinai in duplice forma affinché sia Israele che tutti i popoli potessero camminare insieme secondo modalità diverse, quindi nel rispetto delle singole identità, verso la stessa meta.
È in questo orizzonte, che è quello del rapporto fra Israele e le Nazioni, che la Chiesa giudaico-cristiana delle origini, proprio al concilio di Gerusalemme, ha potuto prendere decisioni importanti nel rispetto di chi proveniva dal mondo giudaico e dal mondo dei gentili (At 15, 13-21), nel segno di un dialogo costruttivo fra particolare e universale ma soprattutto nel riconoscimento di una differenza che rientra nei piani imperscrutabili di Dio per la storia (Rm 11, 25-36).
(L’autrice è docente di giudaismo presso il Centro studi del Vicino Oriente, Milano)