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Gerusalemme santa e contesa

Paolo Pieraccini *
3 giugno 2014
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Gerusalemme santa e contesa
Sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme, una soldatessa israeliana rende omaggio ai caduti. (foto Y. Sindel/Flash90)

Fin dalle sue origini, il conflitto arabo-israeliano ha nella questione di Gerusalemme uno dei suoi nodi più intricati. Dalle richieste di internazionalizzazione, sostenute dalla Santa Sede, alle proposte di sovranità condivisa, che languono nell’impasse dei colloqui di pace.


L’odierna questione di Gerusalemme nasce dalla mancata applicazione della risoluzione Onu 181 (29 novembre 1947), che oltre alla spartizione della Palestina contemplava l’internazionalizzazione territoriale della città (corpus separatum). Nel corso del conflitto arabo-israeliano che ne seguì, la parte occidentale fu occupata dallo Stato ebraico e quella orientale – compresa la città vecchia coi suoi Luoghi Santi – dalla Giordania. Gli accordi di armistizio dell’apri­le del 1949 consolidarono la spartizione di fatto, non riconosciuta dalla comunità internazionale. A niente valsero gli sforzi diplomatici della Santa Sede affinché in sede Onu fosse ribadito il principio dell’internazionalizzazione, unico strumento giuridico ritenuto in grado di tutelare gli interessi spirituali del cattolicesimo.

Nel corso della guerra dei Sei giorni (giugno 1967) Israele occupò anche la parte orientale della città realizzandone l’annessione, in virtù del significato storico e religioso che rivestiva per il popolo ebraico. I confini municipali vennero allargati a includere la maggior quantità di territorio, escludendo al contempo quanti più abitanti arabi possibile. Il controllo del Haram al-Sharif (la Spianata delle moschee, o Monte del Tempio per gli ebrei) venne però lasciato ai musulmani. L’Onu domandò a più riprese la revoca dei provvedimenti adottati per alterare lo status di Gerusalemme, sentendosi ogni volta rispondere che la città era stata il fulcro della fede e del nazionalismo ebraico per tremila anni. Era perciò inconcepibile dividerla di nuovo, anche perché l’amministrazione dei Luoghi Santi era stata lasciata alle rispettive comunità religiose.

Di fronte alla determinazione israeliana a mantenere questa sua conquista, alla disfatta degli eserciti arabi che rendeva improbabile un ritorno alla situazione precedente e al disinteresse della comunità internazionale e di gran parte delle Chiese cristiane per l’applicazione del corpus separatum, anche la Santa Sede si risolse ad abbandonare quella formula. Essa iniziò a domandare a chiunque si fosse trovato ad esercitare la sovranità su Gerusalemme di aderire «a uno statuto speciale internazionalmente garantito» per ciò che riguardava «la tutela dei massimi valori religiosi e culturali» della città, necessario per tutelarne il carattere unico e irripetibile. Le garanzie di carattere internazionale avrebbero dovuto essere applicate alla parte più antica, dov’erano concentrati i più importanti Luoghi Santi. Esse non avrebbero dovuto limitarsi alla semplice extraterritorialità dei santuari, ma avrebbero dovuto pre­servare e valorizzare l’identità e la sacralità di Gerusalemme in tutti i suoi aspetti.

Fallimento degli accordi di pace. La Santa Sede ha continuato a mantenere questa posizione fino ai nostri giorni. Nel frattempo la questione di Gerusalemme ha conosciuto notevoli sviluppi: il 13 settembre 1993 fu firmato un accordo quadro israelo-palestinese che procrastinava le decisioni sui problemi più difficili, tra i quali quello di Gerusalemme. Nel contesto di una sistemazione definitiva del conflitto però, per la prima volta Israele accettava di negoziare il futuro della città. Iniziarono a fiorire i progetti di risoluzione. Uno dei modelli più discussi fu quello della «sovranità congiunta», secondo il quale Gerusalemme dovrebbe rimanere unita, con ambedue gli Stati chiamati ad esercitarvi il potere. Essa sarebbe amministrata da un solo consiglio municipale, eletto da tutti i residenti e composto da israeliani e palestinesi. Un altro progetto molto dibattuto fu quello della «sovranità condivisa», basato su una divisione funzionale di Gerusalemme in due municipalità. Le varie aree della città –  destinata a rimanere fisicamente unita – sarebbero divise in un numero di zone funzionali. In alcuni casi i due popoli condividerebbero il potere, mentre in altri governerebbero separatamente. Un ulteriore modello oggetto di dibattito fu quello della «sovranità distribuita», secondo il quale all’interno di una città unita si dovrebbe realizzare una divisione della sovranità tra i due popoli, sulla base di precise linee territoriali. Due distinte municipalità eserciterebbero il massimo livello di separazione dell’autorità ed avrebbero il completo controllo del rispettivo settore.

Dalla metà del 1996 il processo di pace conobbe gravi difficoltà. Solo dopo la vittoria alle elezioni israeliane del laburista Ehud Barak (17 maggio 1999) i colloqui ripresero spediti. A metà del 2000 Barak decise di abbandonare la formula gradualista stabilita nel 1993, per raggiungere subito un accordo definitivo su tutte le questioni. Le parti, riunite a Camp David (11-25 luglio), discussero tra l’altro una proposta israeliana per Gerusalemme: lo Stato ebraico avrebbe esercitato la sovranità sull’intera Gerusalemme est e i palestinesi avrebbero ottenuto l’«autonomia amministrativa» sui loro quartieri, oltre al diritto di «custodia» del Haram al-Sharif. Di fronte al rifiuto dei palestinesi, la delegazione statunitense propose loro completa sovranità sulle aree meno prossime alla città vecchia e sulla superficie del Haram al-Sharif. Nemmeno questa proposta fu accettata da Arafat, secondo il quale il mondo musulmano non avrebbe mai tollerato che fossero cedute a Israele porzioni di sovranità sul terzo luogo santo dell’Islam (allo Stato ebraico sarebbe stata concessa l’autorità sul sottosuolo di quel luogo sacro).

Nonostante la sanguinosa rivolta palestinese che ne seguì, il 23 dicembre il presidente statunitense Bill Clinton riuscì a portare di nuovo le parti al tavolo delle trattative. Egli formulò innovative proposte su Gerusalemme, nella speranza di ottenere la definitiva rinuncia di Arafat al ritorno dei profughi: piena sovranità palestinese su tutti i quartieri arabi e israeliana su quelli ebraici (il che significava l’annessione degli insediamenti costruiti illegalmente nella parte orientale a partire dal 1967). Nella città vecchia, Israele avrebbe ottenuto la sovranità sul quartiere ebraico e su parte di quello armeno. Sui Luoghi Santi delle due religioni Clinton formulò due proposte: una assegnava ai palestinesi la sovranità sulla superficie del Haram e agli israeliani sull’intero Muro Occidentale. La seconda limitava la sovranità israeliana al Muro del Pianto e prevedeva sovranità condivisa sul Haram e sullo spazio «sotto il monte e dietro il muro». In ambedue i casi sarebbe stata necessaria un’«approvazione congiunta» per intraprendere scavi archeologici.

I palestinesi avanzarono obiezioni all’insieme della proposta: innanzitutto l’inclusione nello Stato ebraico di ampie aree ancora non colonizzate attorno a Gerusalemme e Betlemme avrebbe distrutto la continuità territoriale dello Stato palestinese, impedendone lo sviluppo. Inoltre, il concetto clintoniano della «massima contiguità» tra i vari quartieri non poteva essere messo in pratica. Quelli palestinesi, infatti, rimanevano separati l’uno dall’altro – oltre che dal resto della Palestina – a causa della presenza degli innumerevoli insediamenti che circondavano la città, i quali contenevano ormai oltre duecentomila coloni.

Un ultimo tentativo di raggiungere un accordo fu effettuato a Taba nel gennaio successivo. Ancora una volta, lo scoglio più difficile si dimostrò quello dei Luoghi Santi. Gli israeliani presentarono allora l’interessante proposta del «bacino sacro»; un’area che racchiudeva i più importanti santuari delle tre religioni monoteistiche, da sottoporre a un regime internazionale o a una sovranità congiunta. Essa avrebbe dovuto includere la città vecchia, l’area archeologica a sud-ovest della spianata, l’Ophel, la valle del Cedron, il monte degli Ulivi con l’antico cimitero ebraico, il monte Sion e la cittadella di David. Il piano era eccellente sotto molti aspetti, non ultimo perché includeva molti importanti santuari cristiani situati fuori le mura, della cui salvaguardia le precedenti proposte di pace non si erano mai interessate. Il 27 gennaio 2001 gli israeliani, a dieci giorni dalle elezioni politiche, ritennero necessario porre temporaneamente fine alle discussioni. Dopo la vittoria di Ariel Sharon, l’intifada aumentò ulteriormente di tono e i colloqui non furono ripresi. Nonostante ciò, la diplomazia occidentale, autorevoli personalità della società civile palestinese e israeliana e perfino alcuni stati arabi elaborarono nuovi progetti di pace. A fine febbraio 2002 il principe ereditario saudita Abdullah avanzò ufficialmente una nuova proposta (a tutt’oggi sul tappeto): tutti i Paesi arabi avrebbero allacciato relazioni diplomatiche con lo Stato d’Israele, qualora quest’ultimo si fosse ritirato entro i confini del giugno 1967e avesse accettato di condividere la sovranità su Gerusalemme.

L’iniziativa di Ginevra. Nel giugno 2002 il governo Sharon approvò il progetto di una barriera di sicurezza tra Stato ebraico e Cisgiordania, presentata come una necessità per difendere la popolazione israeliana contro il terrorismo palestinese. I mesi successivi furono caratterizzati da un circolo vizioso di azioni e controreazioni sempre più efferate. In questo contesto fu resa nota un’iniziativa di pace condotta da autorevoli personalità israeliane e palestinesi. Esse avevano continuato in segreto i negoziati per colmare le differenze rimaste a Taba, entrando nei dettagli di un accordo definitivo: Gerusalemme sarebbe divenuta capitale dei due Stati, con sovranità spartita attraverso l’assegnazione dei quartieri ebraici a Israele e di quelli musulmani e cristiani allo stato di Palestina. Le parti si sarebbero impegnate a garantire libertà di accesso e di culto ai Luoghi Santi, a rispettare il significato universale, storico, religioso, spirituale e culturale della città e le consuetudini tradizionali delle differenti denominazioni religiose. Un organismo inter-confessionale formato da rappresentanti delle tre religioni monoteistiche avrebbe promosso il dialogo e svolto funzioni consultive sulle questioni riguardanti il significato religioso della città. Le rispettive municipalità avrebbero formato una Commissione per il coordinamento e lo sviluppo di Gerusalemme (Ccsg) composta da palestinesi e israeliani, a cui sarebbero state affidate funzioni come il coordinamento delle infrastrutture e dei servizi e la promozione dello sviluppo economico della città.

Israele avrebbe potuto esercitare la sovranità su quasi tutti gli insediamenti costruiti a Gerusalemme est dopo il 1967. Anche le colonie situate fuori dai confini municipali sarebbero state annesse allo Stato ebraico, andando a costituire la cosiddetta «Grande Gerusalemme» ebraica. In cambio dell’annessione di questi insediamenti (il 2,5 per cento di territorio occupato nel 1967), ai palestinesi sarebbe stata ceduta una superficie equivalente di territorio israeliano. Per salvaguardare i beni culturali dichiarati Patrimonio dell’umanità in città vecchia, le parti avrebbero agito secondo le direttive dell’Unesco. A questo scopo, un Gruppo di attuazione e verifica (Gav) avrebbe avuto libero accesso ai siti, ai documenti e alle altre informazioni connesse all’adempimento di questa funzione. Il Gav avrebbe creato una Unità di polizia per la città vecchia, la cui funzione sarebbe stata addestrare, collegare, coordinare e assistere le forze di sicurezza palestinesi e israeliane destinate a svolgere le funzioni di polizia necessarie a «sciogliere possibili tensioni locali». Gli spostamenti all’interno della città vecchia sarebbero stati «liberi e senza impedimenti». I punti di accesso e di uscita sarebbero stati controllati dalle autorità dello Stato destinato a esercitarvi la sovranità, assistite da membri della polizia. I controlli agli ingressi dell’area avrebbero facilitato la libertà di movimento e assicurato la sicurezza all’interno dell’area.

Israele avrebbe esercitato la sovranità sul Muro del Pianto e sul quartiere ebraico e lo Stato di Palestina quella sul Haram al-Sharif e sugli altri tre quartieri (compreso quello armeno nella sua interezza). I palestinesi avrebbero riconosciuto la sacralità e il particolare significato religioso e culturale che l’Haram (o Monte del Tempio) rappresentava per il popolo ebraico. Ciò avrebbe comportato alcune limitazioni alla loro sovranità (in particolare, sarebbe stato possibile edificare o effettuare scavi solo previo consenso israeliano). Sarebbe stato conservato il diritto di accesso per tutti i fedeli e mantenuto il divieto di culto per ebrei e cristiani. La responsabilità per la sicurezza sarebbe spettata allo Stato di Palestina.

Gli sviluppi recenti. Questa proposta continua a costituire una delle più dettagliate e realistiche finora varate. Essa però non poté essere adottata, visto l’ulteriore intensificarsi della rivolta palestinese, l’ostilità degli Stati Uniti e lo scarso interesse mostrato dall’Onu e dall’Unione Europea, che non vollero discostarsi dal piano di pace graduale che avevano recentemente elaborato assieme a russi e americani. Infine, anche Arafat rifiutò di sostenerla, visto che l’iniziativa era stata rigettata dal governo Sharon e che la controparte era formata da esponenti della società civile israeliana privi di avallo governativo.

Nel 2008, in occasione della momentanea ripresa dei colloqui di pace, il primo ministro Ehud Olmert fece tesoro di molte delle proposte elaborate dall’amministrazione Clinton nel dicembre 2000 e di quelle maturate successivamente a Taba e a Ginevra: la città sarebbe stata spartita tra arabi ed ebrei e trasformata nella capitale dei due Stati, mentre il «bacino sacro» sarebbe stato affidato a un’amministrazione internazionale. Il successivo governo, guidato da Benjamin Netanyahu, non solo ha proseguito con scarsa convinzione i colloqui, ma ha ulteriormente accelerato la colonizzazione della parte est di Gerusalemme. Dal 1967, oltre un terzo dell’area orientale della città è stata espropriata per edificarvi insediamenti israeliani. Se l’attività di colonizzazione continuerà al ritmo attuale finirà per rendere impossibile qualsiasi compromesso. I mutamenti urbanistici e demografici saranno infatti molto difficili da rimettere in discussione. Ciò renderà impossibile applicare il principio clintoniano della sovranità israeliana sui quartieri ebraici e palestinese su quelli arabi, divenuto nel frattempo ancor più iniquo per questi ultimi.

A lungo termine, questa politica sembra poco conveniente per lo Stato ebraico. Oltre a esacerbare gli animi dei palestinesi, essa creerà attriti con la comunità internazionale, la quale continuerà a disconoscere la pretesa di Israele di trasformare l’intera città nella sua «capitale eterna». Considerando che Gerusalemme rimane il nodo più sensibile e difficile del conflitto, solo il riconoscimento delle aspirazioni politiche e religiose palestinesi renderà possibile un accordo di pace definitivo. In tal modo, tra l’altro, gran parte del territorio occupato a Gerusalemme tra il 1948 e il 1967 verrebbe riconosciuto dalla comunità internazionale quale capitale politica d’Israele, in quanto frutto di uno specifico trattato firmato con la controparte palestinese.

(* Ufficio storico della Custodia di Terra Santa)

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