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In morte di un ebreo palestinese

Giorgio Bernardelli
7 aprile 2011
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Anche i costruttori di ponti muoiono nel conflitto infinito che insanguina la Terra Santa. Anzi, è molto facile che siano esposti alla violenza più di tutti gli altri. La riflessione sorge spontanea davanti all'uccisione, giorni fa a Jenin, di Juliano Mer Khamis, attore arabo israeliano e tra gli esempi più belli della voglia di pace nella giustizia in Palestina.


Anche i costruttori di ponti muoiono nel conflitto infinito che insanguina la Terra Santa. Anzi, è molto facile che siano esposti alla violenza più di tutti gli altri. È il pensiero che mi è frullato subito nella testa lunedì, quando ho letto dell’uccisione a Jenin di Juliano Mer Khamis, l’attore arabo israeliano divenuto il simbolo del Teatro della libertà, uno degli esempi più belli della voglia di pace nella giustizia in Palestina.

Juliano era un uomo che si definiva «al 100 per cento palestinese e al 100 per centro ebreo». E non era un modo di dire: era infatti figlio di una coppia mista, formata da una donna ebrea della Galilea fortemente impegnata nei movimenti per la pace e da un arabo cristiano di Nazaret. Come attore aveva recitato in numerosi film (compare anche nel film Miral, tratto dal libro di Rula Jebreal), ma a Jenin ci era arrivato sulle orme di sua madre Arna che durante gli anni terribili della prima intifada (1987-1993) da ebrea proprio qui aveva provato a rompere la catena dell’odio promuovendo il teatro tra i ragazzi del campo profughi identificato in Israele come il covo dei terroristi per antonomasia.

Juliano nel 2006 aveva rilanciato quella sfida trovando un alleato decisamente insolito: Zakaria Zubeidi, un ex leader delle Brigate dei martiri di al Aqsa, che aveva scelto di lasciare le armi per promuovere con lui questa forma di lotta decisamente alternativa. Era nato così il Teatro della libertà che in questi cinque anni ha messo in scena rappresentazioni coraggiose (La fattoria degli animali di Orwell, tanto per citare un titolo). Ma parlare di libertà in un contesto dove c’è spazio solo per i riflessi condizionati dell’azione militare e della rappresaglia e dove il germe della violenza inquina anche i rapporti più quotidiani, è un’operazione decisamente rischiosa. Così lunedì qualcuno a Jenin è arrivato a sparare a Mer Khamis.

Perché uccidere in Palestina un uomo che nella sua attività artistica ha denunciato così tante volte l’occupazione israeliana? Perché secondo qualcuno non lo faceva nel modo giusto. Perché comunque lui si sentiva «al 100 per cento ebreo» e dunque era scomodo. Perché con il suo teatro parlava di una libertà da rivendicare anche rispetto a quelli che stanno dalla propria parte. E questa è la parola più vietata nel Medio Oriente di oggi. Juliano Mer Khamis è stato ucciso, dopo che per due volte avevano già provato a bruciargli il teatro. Ma il suo non è un caso isolato. Ho ben presente, ad esempio, il dolore con cui Rutie Atzmon – la fondatrice di Windows, il giornale che fa scrivere insieme ragazzi israeliani e palestinesi – mi ha raccontato della scelta di chiudere la loro sede di Tulkarem. Avevano già trovato diverse volte i vetri dell’ufficio crivellati di colpi, come segno di intimidazione: non se la sono sentiti di correre rischi con i ragazzi; preferiscono portare avanti il lavoro solo nelle scuole.

Zakaria Zubeidi – che per esperienza personale se ne intende – dice che Juliano non è stato ucciso da un killer isolato. Sostiene che chi ha sparato aveva dietro un’organizzazione forte, qualcuno che voleva mettere a tacere quel tipo di esperienza. Bisogna dirlo senza mezze parole: in Palestina ci sono forze che non vogliono un movimento che veda ebrei e arabi lottare insieme contro l’occupazione israeliana dei Territori. C’è chi teme che qualcosa possa cambiare sul serio. Ma si preferisce far finta di non vedere e così si contribuisce a perpetuare questo conflitto.

Mi ritrovo pienamente in quello che sul blog pacifista israeliano +972 ha scritto ieri Mairav Zonszein: se la prende con gli attivisti di Bi’ilin, quelli delle proteste non violente contro il muro; in questo caso non hanno avuto lo stesso coraggio che dimostrano ogni settimana. Perché nel loro comunicato di condanna hanno scritto che Mer Khamis «è una vittima dell’escalation di violenza provocata dall’occupazione israeliana». È troppo comodo cavarsela così, senza una parola di condanna per la violenza che avvelena dal suo interno la società palestinese.

Probabilmente ha ragione Amos Gitai, uno dei registi con cui Juliano Mer Khamis aveva lavorato: «Il Medio Oriente di oggi non può sopportare i costruttori di ponti», ha detto commentando la sua morte. Forse perché loro sarebbero gli unici in grado di cambiare questa terra davvero.

Clicca qui per vedere su YouTube il trailer del documentario Arna’s children in cui Juliano Mer Khamis ha raccontato il lavoro svolto da sua madre

Clicca qui per leggere le dichiarazioni di Zakaria Zubeidi all’agenzia palestinese Maan

Clicca qui per leggere il commento di Mairav Zonszein sul blog +972

Clicca qui per leggere il commento del regista Amos Gitai sulla morte di Mer Khamis

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