Torna la battaglia degli stomaci vuoti, storica forma di protesta dei prigionieri politici palestinesi, oggi scelta di nuovo come strumento di mobilitazione delle masse. Se fin dagli anni immediatamente successivi all’occupazione del 1967, i detenuti palestinesi si sono organizzati nelle carceri per chiedere un miglioramento delle condizioni di vita ma anche per cementare la società fuori, la sconfitta del movimento dei prigionieri segnata dalla firma degli accordi del 1993 aveva provocato uno stallo.
Oggi 1.500 prigionieri lo sfidano. Dietro le loro richieste c’è tanto, messaggi i cui destinatari sono multipli: con lo sciopero della fame Libertà e Dignità, lanciato dal leader di Fatah incarcerato Marwan Barghouti il 17 aprile (dal 1974, per decisione dell’Olp, Giornata dei Prigionieri), i detenuti si rivolgono a Israele, al popolo palestinese e alla sua Autorità Nazionale.
Al primo chiedono il rispetto dei diritti dietro le sbarre, la fine della pratica dell’isolamento come forma punitiva, regolare accesso alle cure mediche e alle visite di legali e familiari, la fine dell’uso sistematico e pervasivo di detenzione amministrativa e tortura. Alla società palestinese chiedono di unirsi intorno ad un movimento da sempre considerato spina dorsale della lotta di liberazione, capace di mobilitare e unificare le diverse anime palestinesi. All’Anp chiedono di fare della questione dei prigionieri una priorità del negoziato.
C’è chi la definisce una faida interna, tra la base e i vertici di Fatah, che da parte loro considerano tale lettura un regalo a Israele, un modo per sminuire la forza della protesta. Di certo, vista la caratura di Barghouti, un problema interno esiste ed è figlio di quella che più di un analista descrive come la mancanza di strategia politica di lungo periodo della leadership dei Territori Occupati.
Ci provano i prigionieri: a digiuno dal 17 aprile, con un numero sempre maggiore di adesioni (anche tra le fila di Hamas e Fronte Popolare per la liberazione della Palestina, seppur su base individuale), sono riusciti a mobilitare le piazze. Non con i numeri del passato ma iniziative e sit-in si stanno tenendo con costanza sia a Gaza sia in Cisgiordania. Giovedì 27 aprile è stato indetto uno sciopero generale in tutti i Territori in solidarietà con gli stomaci vuoti dei detenuti: migliaia di negozi, scuole e banche chiusi, saracinesche abbassate e strade pressoché vuote sia nelle grandi città che nei villaggi e i campi profughi. Venerdì la stessa Fatah ha chiamato alla “giornata della rabbia”.
Israele risponde. Dopo aver dichiarato di non voler scendere a patti con i prigionieri, ha reagito dentro le carceri con un inasprimento delle misure punitive: isolamento per i detenuti in sciopero, raid nelle celle, perquisizioni, confische di libri ed effetti personali, trasferimenti da un carcere all’altro. Atteso il rifiuto a non mettere in dubbio il sistema giuridico applicato ai residenti dei Territori, sottoposti a legge militare e non civile. E le differenze di trattamento sono palesi: se un palestinese viene giudicato da corti militari, può essere trattenuto senza accuse ufficiali per 90 giorni (estendibili di altri 90) e non vedere un avvocato per tre mesi, un israeliano è giudicato da tribunali civili, può essere trattenuto senza accuse al massimo 30 giorni e deve vedere un avvocato entro 21.
E i prigionieri scioperano. Stomaci vuoti per modificare, per quanto possibile, la vita in carcere. Sullo sfondo, le vittorie segnate in passato dal movimento dei prigionieri, passato attraverso fasi diverse. Dal 1974 in poi gli scioperi di massa hanno rispecchiato la storia del movimento di liberazione fuori. «Se subito dopo il 1967 è servito del tempo prima che i prigionieri si organizzassero – ci spiega il ricercatore ed ex prigioniero politico, Murad Jadallah – nei primi anni Settanta si forma una nuova consapevolezza: non si chiede più soltanto una prigionia più “umana”, ma si fa un passo politico. Ovvero il rispetto dei diritti in quanto prigionieri politici».
Con la crescita del numero di detenuti, nel tempo, il movimento cambia: nei primi anni a prevalere sono i prigionieri della diaspora, ovvero i combattenti ai confini, in Siria e Libano, ma anche contadini e operai analfabeti. Ai secondi si insegna a leggere, si dà una formazione politica; con i primi si instaurano legami con l’esterno. «La vera svolta si ha con l’aumento del numero di prigionieri residenti dentro i confini della Palestina storica. È in quel momento che si definisce una vera e propria strategia e lo sciopero della fame diviene strumento principale della lotta. Ed è in quel momento, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, che si registrano i primi decessi per alimentazione forzata da parte delle autorità carcerarie».
Con Oslo il movimento crolla. Tagliati fuori dall’intesa raggiunta tra Olp e Israele nel 1993, i prigionieri – a quelli “tradizionali” si erano nel frattempo aggiunti i primi detenuti di Hamas – si sentono abbandonati e vedono (forse prima degli altri) gli errori fatali compiuti dalla leadership palestinese. «Nasce l’Anp che instaura con il movimento dei prigionieri un rapporto del tutto diverso, quasi di welfare. Garantisce stipendi alle famiglie, ma non parla di negoziare il loro rilascio».
La crisi è dura e si prolunga per anni, quelli della Seconda intifada (2000-2004) e quelli successivi quando spuntano per la prima volta gli scioperi della fame individuali. «Si tratta di singoli prigionieri – conclude Jadallah – che combattono la loro battaglia contro la detenzione amministrativa, ma che non coinvolge il resto del movimento: il digiuno perde la sua natura politica e collettiva». Fino al 17 aprile 2017, nella speranza dei detenuti una nuova chiave di volta della loro lotta dal carcere.