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Le domande dei profughi cristiani iracheni in Libano

Andrea Avveduto, dal Libano
25 gennaio 2017
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Le domande dei profughi cristiani iracheni in Libano
Il gruppo di cristiani iracheni profughi nel villaggio libanese di Deir Mimas.

Siamo andati a Deir Mimas, un piccolo paese cristiano nel sud del Libano, dove abbiamo incontrato un gruppo di profughi cristiani iracheni. Nelle loro parole risentimento e voglia di un futuro altrove.


Deir Mimas è un piccolo paese cristiano nel sud del Libano. A sette chilometri dal vicino confine con Israele, questo borgo sperduto è immerso tra gli ulivi e ospita poche centinaia di anime. Il caos di Beirut dista un’ora e mezza di macchina ed è qui, nella piccola proprietà della Custodia di Terra Santa, che arriviamo con padre Toufic Bou Mehri per la messa domenicale.

«Vengo qui ogni fine settimana, per celebrare la messa e stare con i cristiani del Paese», spiega il frate minore. Una presenza piccola, discreta, qualche decina di persone di diverse confessioni. Da due anni però si sono aggiunti anche alcuni profughi iracheni, scappati dalle persecuzioni del sedicente Stato islamico. Partecipano anche loro all’Eucaristia, assorti in preghiera, con il corpo in chiesa e il cuore nel lontano Iraq. Sono arrivati poco a poco, senza portare nulla con sé. Chi era professore, chi imprenditore, o chi faceva semplicemente l’operaio: oggi sono tutti uguali, in comune hanno il triste destino che li ha allontanati da casa. Ognuno deve ricominciare a vivere, in un altro Paese, e deve trovare la forza per andare avanti. In alcuni casi è difficile. «Grazie agli aiuti ricevuti dall’Associazione pro Terra Sancta – ci dice padre Toufic – abbiamo acquistato alcune macchine per produrre l’olio. E così abbiamo potuto avviare una piccola attività».

È un’iniziativa fondamentale nel difficile compito dei frati sostenuti in questi anni dalla ong a servizio della Custodia. Senza lavoro non c’è futuro. Per vivere hanno innanzitutto bisogno di lavorare. Nel dialogo che si crea nel salone parrocchiale dopo la messa, attorno a un buon caffè arabo e qualche pasticcino, i drammi e le speranze di queste persone emergono, prima con qualche esitazione, poi con sempre maggiore chiarezza.

«Quale colpa grave ho commesso nella mia vita per essere qui, senza un amico, a tirare a campare?». La domanda di Zued, un giovane di Mosul sui trent’anni, rompe il silenzio. Come lui, altri vivono il dramma della solitudine. «Per trovare l’unico amico della mia età devo fare i chilometri e raggiungere Beirut». Non conosce il motivo ci tutta questa sofferenza nemmeno Jilan, ragazza diciassettenne scappata con i genitori da Qaraqoush. «Io non riesco a perdonare chi mi ha distrutto la vita. Non ce la faccio. Come si fa a perdonare chi ha ucciso e rubato il futuro a così tante persone?». Silenzio. E quando accenniamo alla possibilità di tornare a casa – una volta che le condizioni lo renderanno possibile – esplode un coro di «No!». «Non torneremo mai più! Abbiamo perso tutti i nostri beni, la storia si ripete, ancora una volta. Chi ora occupa i posti di responsabilità nel governo non vuole il ritorno dei cristiani, c’è un progetto molto preciso che vuole eliminare i cristiani dal Medio Oriente». E poi ancora, una domanda che ammutolisce: «Perchè l’Europa si è dimenticata degli iracheni?».

I frati si fanno vicini e compagni dentro i drammi che la vita non ha risparmiato a queste persone dai volti sofferenti e a tratti tristi. Ma c’è anche spazio per sperare, nel lungo e difficile cammino del perdono. «Gesù ci ha detto di perdonare – dice Heline – e se vogliamo essere cristiani, dobbiamo provarci». Non sarà semplice, ma le parole di Gesù interrogano ancora tutti questi cristiani rifugiati in Libano. È la fraterna presenza dei francescani a testimoniare che alla fine perdonare rende più lieta la vita. E forse conviene.

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