Ringrazio l’Unione Europea per questo premio che testimonia la sofferenza del nostro popolo, ma allo stesso tempo chiedo sostegno da tutto il mondo. Siamo perseguitati come comunità e come ogni minoranza in Iraq: scompariremo se non si interviene».
Con voce ferma, Nadia Murad manda il suo messaggio all’Europa. Una ragazza di soli 23 anni che dal 2014 non si dà tregua: porta in ogni angolo del mondo la sua storia e quella del popolo curdo di fede yazida per fermare il genocidio in corso. Quest’anno il Parlamento europeo l’ha insignita, insieme a Lamiya Aji Bashar, 19 anni, del premio Sakharov per la libertà di pensiero. Il 13 dicembre a Strasburgo il presidente Martin Schulz ha consegnato tra le loro mani il premio, mentre i deputati si alzavano in piedi per applaudirne il coraggio.
Ma, dicono le due giovani, la strada da fare è ancora lunga e il tempo a disposizione pochissimo, in un paese martoriato da decenni ininterrotti di guerre e ora dall’occupazione dello Stato Islamico. «Portate l’Isis di fronte alla Corte penale internazionale: tanti combattenti stranieri tornano nei loro Paesi di origine come se non avessero commesso alcun crimine – aggiunge Lamiya – Solo facendo giustizia si potrà evitare che accadano altri genocidi».
A monte sta la visione manichea dell’estremismo dell’Isis, portatore di un’interpretazione distorta dell’Islam che punta a cancellare la ricchezza etnica e religiosa del Medio Oriente, la sua storia millennaria, i tanti popoli che lo hanno attraversato e lo vivono. Gli yazidi sono stati da subito nel mirino, accusati di blasfemia: una fede antichissima (secondo alcuni storici precedente all’ebraismo) di tipo sincretico e monoteista. I fedeli dello yazidismo venerano sette angeli, creati dal Dio primordiale. Tra questi spiriti angelici il primo e più importante è l’Angelo Pavone (Tawisi Melek). Oggi sono circa 800 mila gli yazidi nel mondo, per lo più stanziati in Iraq, nella regione del Sinjar.
Ad agosto 2014 i miliziani islamisti hanno attaccato Sinjar con una violenza senza precedenti: migliaia di uomini sono stati giustiziati, i bambini rapiti, le donne schiavizzate. Chi ce l’ha fatta è fuggito sul monte Sinjar per ritrovarsi sotto assedio, senza cibo né acqua fino all’intervento dei peshmerga di Erbil e dei combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistran e delle Unità di protezione popolare siriane.
Sarebbero ancora 3.300 le donne e i bambini schiavi dell’Isis che procede al genocidio della comunità con strumenti diversi: alle esecuzioni e alle fosse comuni, si aggiunge lo sradicamento dalla terra, la violenza sulle donne, volta a spezzare i legami comunitari e l’indottrinamento dei bambini. «Chi è riuscito a fuggire ha bisogno immediato di sostegno psicologico – spiega Nadia – Donne e bambini sono traumatizzati e hanno perso ogni prospettiva di vita». La maggior parte di loro si trova nei campi profughi del Kurdistan iracheno, in condizioni estremamente difficili. E ad aiutarli, aggiunge Lamiya, ci sono poche organizzazioni e nessuna strategia strutturale: «Chi di noi si è liberata lo ha fatto da sola, senza alcun aiuto. Dopo due anni non è stato ancora messo in piedi un effettivo sostegno internazionale: c’è bisogno di fornire servizi e assistenza psicologica, ma soprattutto garantire la protezione internazionale perché possiamo tornare a casa».
Sinjar è stata liberata poco più di un anno fa, a novembre 2015, ma il ritorno è reso quasi impossibile dagli scontri militari nell’ovest dell’Iraq, a partire da Mosul. E la frammentazione del Paese, dell’unità nazionale, si è talmente radicata da impedire oggi una ricostruzione che non sia solo fisica ma anche psicologica, sociale, politica.
L’Europa ascolta Nadia e Lamiya, le premia e promette aiuto. Il presidente del parlamento Schulz alza la voce: «Abbiamo detto “mai più” ai genocidi, per questo la questione yazidi ci tocca direttamente. Vediamo comunità cancellate e civili uccisi, ma non tendiamo la mano. È vergognoso». Le due giovani salutano, con gli occhi bassi: raccontare le violenze subite riporta alla luce ogni giorno lo stesso dolore, ma – dicono – «non ci fermeremo perché siamo la voce delle donne ancora schiave, dei morti nelle fosse comuni, di chi nel mondo è vittima della tratta».
Giovani ambasciatrici contro la tratta
Il 3 agosto 2014 l’Isis ha preso d’assalto il villaggio yazida di Kocho, in Iraq. Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar sono state rapite insieme a migliaia di donne e bambini e portate a Mosul, dove sono state vendute come schiave sessuali.
Nadia, 23 anni, ha visto massacrare i sei fratelli e la madre per poi finire prigioniera di violenze indicibili: stupri, pestaggi, torture. Lamiya, 19, è stata costretta a confezionare cinture esplosive per i futuri kamikaze.
A novembre del 2014 Nadia è riuscita a fuggire grazie all’aiuto di una famiglia irachena. È arrivata nel Kurdistan iracheno e da lì è scappata in Germania. Un anno dopo ha parlato al Consiglio di Sicurezza Onu del genocidio in atto contro il suo popolo e a settembre 2016 è stata nominata prima ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta.
Lamiya è rimasta in mano all’Isis fino all’aprile 2016: la famiglia è riuscita a pagare dei trafficanti che l’hanno portata via da Mosul. Ma una mina è esplosa sulla via della fuga: una delle sue compagne è morta e Lamyia è stata gravemente ferita al volto, perdendo quasi del tutto la vista. In Germania ha potuto riabbracciare i fratelli.
Terrasanta 1/2017
Eccovi il sommario dei temi toccati nel numero di gennaio-febbraio 2017 di Terrasanta su carta. Tutti i contenuti, dalla prima all’ultima pagina, ordinati per sezioni. Buona lettura!
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